Il terribile “Game” di Ramin
Un altro rigido inverno si approssima alle porte d’Europa, al di là delle montagne al confine orientale. Mentre gruppi di migranti, soprattutto asiatici, premono sulla nuova frontiera calda (anche e soprattutto per ragioni geopolitiche) al confine tra Polonia e Bielorussia, nei Balcani, regione martoriata da una sanguinosa guerra intestina, terminata circa un quarto di secolo fa, lo spettro di una crisi umanitaria si ripresenta puntualmente, con l’inizio del primo freddo, ormai da sei anni.
Attraversamento senza documenti
A partire dal 2015, le prime centinaia di migranti provenienti da zone di conflitto in Medio Oriente hanno cominciato lentamente a marciare verso l’Europa, attraversando quella che avrebbe preso il nome di “Rotta Balcanica”, che culmina nella città italiana di Trieste. Ma, sin da allora, è lungo il confine croato-bosniaco che la maggior parte di loro rimane bloccata, in attesa di tentare il Game, il “Gioco”, ossia l’attraversamento della frontiera senza documenti, con la speranza di raggiungere un porto sicuro nei territori dell’Unione europea. È così che i paesi dell’ex Jugoslavia, fino a poco tempo fa regione di profughi di guerra, è diventata nuovamente territorio che ospita gente in fuga, ma questa volta da paesi terzi.
Oggi però, gli stati extra-Ue lungo la rotta – Albania, Serbia, Bosnia Erzegovina e Montenegro – già provati da profonde carenze in termini di infrastrutture e servizi, sono costretti a gestire un flusso che, seppur numericamente limitato, costituisce una sfida importante in termini socio-economici.
Il numero di presenze è andato progressivamente ridimensionandosi rispetto al 2015, quando nell’area è transitato circa un milione di profughi; a fare da freno ci hanno pensato gli accordi Turchia-Ue sul contenimento dei flussi migratori (soprattutto quelli dalla Siria) e le scelte portate avanti da singoli paesi dell’Unione. Ma dallo scorso agosto qualcosa è nuovamente cambiato.
Condizioni peggiorate
Secondo dati Unhcr, attualmente oltre 10 mila persone in transito sono registrate lungo la Rotta, anche se si stima che i numeri reali – che includono anche coloro i quali non sono formalmente registrati presso le autorità locali – siano superiori ai 30 mila. Tra di essi risultano in aumento le persone in provenienza dall’Afghanistan, già da tempo prima nazionalità per numeri lungo la Rotta Balcanica.
Con la caduta del paese centrasiatico in mano ai Talebani, il numero di persone in fuga dal regime estremista è cresciuto esponenzialmente. Il loro viaggio rimane lungo, tribolato e assai pericoloso, ma ora si teme un peggioramento delle condizioni psicologiche e igienico-sanitarie a cui sono costretti quando approdano in Europa, in seguito alla chiusura delle frontiere di alcuni paesi, tra cui Grecia e Turchia.
Per strada in 4 mila
Negli scorsi inverni le foto di uomini a piedi nudi sulla neve hanno commosso l’intera Europa e hanno portato alla costruzione, finanziata dalla Commissione Europea, del nuovo campo profughi di Lipa, nei pressi di Bihac, ultima città di frontiera, in Bosnia Erzegovina, prima della Croazia. Da questi territori molti migranti tentano il Game per fare il loro ingresso nei territori Ue; qui, di conseguenza, anche la rete Caritas è presente per offrire supporto alle persone in transito.
Perché non tutti riescono a ottenere un posto al sicuro, in attesa del Game. Secondo dati dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), le circa 9-10 mila persone in transito presenti in Bosnia ed Erzegovina devono fare i conti con una capienza complessiva teorica di 5 mila posti letto. Ma attualmente nei campi di accoglienza, sovraffollati e incapaci di garantire il rispetto di standard igienici adeguati in epoca di Covid, ci sono oltre 6.300 persone, mentre almeno altre 4 mila sono costrette a dormire per strada o in campi improvvisati, case ed edifici abbandonati, baracche, fabbriche dismesse.
Per questo, quando si parla di Rotta Balcanica, si usa spesso il termine “umanità interrotta”. E se le condizioni di grave vulnerabilità, sia all’esterno che all’interno dei campi stessi, si manifestano chiaramente nei territori intorno a Bihac e lungo il confine, non sono da meno gli accampamenti, sia formali che informali, poco fuori Sarajevo.
Bloccati in patria e fuori
Ad Usivak, a circa mezz’ora dalla capitale del paese, sorge un centro temporaneo di accoglienza, gestito dall’Oim dal 2018. Gli ospiti sono in maggioranza famiglie afghane, molte delle quali sono scappate diversi mesi prima della caduta di Kabul. Molti di loro si sentono inquieti per le sorti dei propri familiari ancora intrappolati nel paese, o in marcia verso l’Europa attraversando migliaia di pericoli, essendo già consapevoli di cosa li aspetterà questo inverno.
Tra loro c’è Ramin, che da oltre un anno tenta di raggiungere la moglie in Francia. La collaborazione con il social corner di Caritas – uno dei pochi luoghi di aggregazione e socializzazione al riparo dalle intemperie – lo ha salvato da una vita di inedia, fatta di attese e disillusioni. Nonostante i respingimenti – oltre 5 mila realizzati dall’Italia –, Ramin tenta da quasi un anno il Game, per raggiungere nell’Unione europea la moglie e la famiglia acquisita, di origine afghana ma con cittadinanza francese. Così spera di riuscire anche a ottenere il ricongiungimento della sua famiglia di origine: dallo scorso agosto, infatti, vive la preoccupazione per i suoi genitori, che sono stati evacuati dalla regione al confine sud-est del paese, ma rimangono ancora bloccati in Afghanistan.
«È difficile trovare momenti di serenità durante l’attesa lungo questa frontiera, ma ci si aggrappa ai piccoli momenti di condivisione con altri compagni di viaggio, che tutti speriamo sia solo un periodo transitorio delle nostre vite» sintetizza Ramin, lo sguardo verso le montagne, che spera di oltrepassare presto per cominciare la sua nuova vita.
Ma il pensiero è ancora rivolto ai connazionali, sia ai genitori e ai fratelli, oggi più che mai in attesa di un luogo sicuro, sia alle migliaia di persone – tra cui tanti vicini, amici o semplici conoscenti – che sono partiti. E che dovranno affrontare, come lui, un altro lungo e rigido inverno, segregati e respinti ai confini dell’umanità europea.
Aggiornato il 10/01/23 alle ore 10:16