«Grazie al cuore della gente»
Alessandro, da quanti giorni sei in Turchia?
«Sono arrivato in Turchia due giorni dopo il terremoto con il collega Daniele Bombardi. Abbiamo fatto tappa a Istanbul per coordinare l’invio dei primi aiuti nella zona colpita. Subito dopo, io sono andato a Iskenderun – nel cosiddetto “cratere del sisma” –, dove ha sede il vicariato apostolico di Anatolia. Mi sono fermato una decina di giorni a Iskenderun – la città più devastata – per poi rientrare in Italia. Oggi (10 marzo) sono di nuovo nella stessa zona: precisamente a Mersin, dove Caritas con una Comunità di Cappuccini stanno accogliendo sfollati. Domani sarò ancora ad Iskenderun».
Senti la terra ancora tremare?
«Alle prime due prime scosse, catastrofiche, ne sono seguite migliaia. Sì, ne ho sentite parecchie. Ricordo che il 20 febbraio scorso i miei colleghi si trovavano in aeroporto ad Hatay quando c’è stata una scossa forte e le vetrate sono scoppiate: dicono di aver vissuto un momento di vero panico. Due giorni fa è stata avvertita una scossa forte anche ad Adana che è, di per sé, al di fuori dal cratere del terremoto. La paura c’è ovunque in questo Paese: pure ad Istanbul, che, a detta dei geologi, si trova su una faglia per cui si teme sempre un’altra catastrofe, come nel 1999».
Cosa ti sei trovato davanti la prima volta?
«La situazione che ho trovato era e resta disperante. Ci sono città interamente distrutte. È difficile trovare le parole per descrivere un tale disastro».
Quali città hai visto?
«Sono stato, ad esempio, ad Antiochia: è una città rasa al suolo. Le chiese sono state pesantemente danneggiate. Ad Iskenderun la cattedrale è completamente crollata (foto sotto) ed è divenuta, per i cristiani, l’immagine-simbolo di questo terremoto. La sede della Caritas, che si trova proprio accanto a questa cattedrale, ha subito seri danni, ma è ancora agibile; ciò è stato provvidenziale per cominciare a organizzare gli aiuti».
Abbiamo letto che ci sono state proteste interne in Turchia per il ritardo degli aiuti. Cosa puoi dire in proposito?
«Gli aiuti sono stati fatti arrivare come si poteva nella situazione fisica e politica data. Nei primi giorni successivi al 6 febbraio, le strade erano ben poco agibili, con detriti ovunque. Si sono immediatamente formate colonne interminabili di automezzi pesanti. Intanto, sotto le macerie di edifici e quartieri crollati su sé stessi, c’erano persone. Molte sono ancora là sotto. Il senso di paralisi di fronte alle dimensioni della catastrofe è stato grande. I colleghi di Caritas Anatolia – colpiti loro stessi, personalmente e nella loro organizzazione, dall’evento – non hanno riposato un attimo. Nelle prime settimane sono mancate, peraltro, l’acqua e l’energia elettrica. L’elettricità è tornata dopo una quindicina di giorni. L’acqua potabile è tornata nell’ultima settimana. Capite bene quanto sia stato difficile cercare di portare aiuto. Nonostante tutto, gli operatori del posto hanno rapidamente svuotato i loro magazzini portando generi di prima necessità ovunque, come hanno potuto. Poi sono iniziati ad arrivare gli aiuti internazionali. La mobilitazione di solidarietà locale è stata comunque immediata e fortissima».
Come sta intervenendo Caritas?
«I nostri primi interventi si sono concentrati sui beni di prima necessità. Nelle settimane scorse faceva ancora molto freddo qui, per cui è stato necessario portare molte coperte e vestiti, oltre al cibo e all’acqua potabile. Nel contempo sono iniziate le prime forme di ospitalità da parte della Chiesa per gli sfollati, terrorizzati dall’idea di tornare nelle loro case, anche se non crollate. Oggi, come ho già detto, mi trovo a Mersin, nel convento dei frati cappuccini che, dal 6 febbraio, stanno ospitando dalle 50 alle 70 persone sfollate specie dai villaggi posti verso il confine con la Siria. La vita religiosa è stata sconvolta. Perciò i religiosi sono molto stanchi e provati, tanto da avere bisogno, anche loro, dell’assistenza psicologica che abbiamo contribuito a supportare grazie a degli specialisti venuti dalla Polonia. Le persone ospitate erano già molto povere. Le loro case non ci sono più o non sono agibili. Non hanno e non avranno mai le risorse per rimetterle a posto. Si tratta, per lo più, di famiglie cristiane. I frati cappuccini stanno offrendo loro il riparo e il ristoro, e la Caritas li sta aiutando molto. Ma certamente questa situazione – benché esemplare – non potrà protrarsi all’infinito».
Si sta già passando a una fase più progettuale?
«Benché ci troviamo ancora in una fase emergenziale, dobbiamo già ipotizzare interventi di riabilitazione. In questa zona si stanno moltiplicando i campi fatti di container e di tende allestiti dalla Protezione Civile turca. Noi intanto stiamo pensando alle attività educative per i bambini: le scuole sono crollate o inagibili e c’è quindi un gran bisogno di tenere impegnati i bambini. Stiamo, per questo, cercando di realizzare accordi con le autorità locali: non è tuttora facile, perché pure le autorità non sanno come muoversi e come cercare di ripartire con la vita delle loro comunità, ancora in mezzo a cumuli e cumuli di macerie. Eppure, ci si deve pensare subito».
Come trovare le risorse?
«La Caritas è un organismo ecclesiale e, come sempre, interviene sostenuta dal cuore della gente, soprattutto cristiani cattolici nelle chiese, ma non solo. Questo sta generosamente avvenendo sia in Italia che qui in Turchia. La generosità è sempre grande. Molte persone vogliono fare e donare. Stiamo raccomandando di far riferimento, in Italia, alla colletta nazionale indetta dalla Conferenza episcopale per domenica 26 marzo, di cui beneficeranno anche le attività di Caritas Italiana in Turchia e in Siria. Considerato che il mercato locale turco comunque funziona, è importante offrire solo denaro, per poter acquistare gli aiuti in loco. Raccogliere beni in Italia e trasportarli qui risulta molto difficile e molto più costoso».
Il testo di questa intervista è stato redatto da Settimana News
Aggiornato il 13/03/23 alle ore 15:43