13 Dicembre 2021

Guinea, il mondo alla rovescia

A settembre i militari hanno deposto il presidente eletto, ma corrotto. Solo l’Onu ha protestato. Per salvarsi, la democrazia deve negarsi?


Fine novembre, aeroporto di Conakry, capitale della Guinea. Un poliziotto fra due suoi superiori controlla il passaporto all’ingresso. Finge di leggere, senza zelo. Restituisce i documenti, e sorride: «Mi lascia i franchi che ha con sé?». Sorrido anch’io: «Agente, la Guinea è transizione. Tutto è in transizione, anche noi», e proseguo. Adesso ridono tutti dietro le mascherine, uno sussurra: «Ah, il bianco: ma è diventato anche lui un po’ guineano?».

Quello che sbalordisce, in Guinea, non è la corruzione in sé. Il 62% dei guineani dichiara un aumento del fenomeno nel 2020, il 42% ammette di aver corrotto negli ultimi 12 mesi, in un paese al 137° posto su 180 per diffusione del fenomeno (28 punti su 100) nella classifica dell’ong specializzata Transparency International. Piuttosto, in Guinea, rispetto al resto dell’Africa, impressiona la naturalezza con la quale il fenomeno si presenta. Non c’è imbarazzo, non c’è scandalo nè da parte della vittima né da parte dell’aguzzino. Anche perché i due si scambiano i ruoli nell’arco della stessa giornata: un pacifico accordo delinquenziale, stipulato da troppo tempo.

Almeno fino ad ora. Ma la stanchezza è nell’aria.

Golpe al mattino, calma la sera
La corruzione è solo uno dei problemi della Guinea. La quale, periferia della periferia, è uno di quegli ormai pochi angoli del pianeta rimasti immuni a modernità, trasparenza, diritti, sviluppo, tecnologia. Una sfida vivente e imperterrita a tutto quanto è desiderabile e auspicabile per un popolo. Soprattutto, il paese dell’Africa occidentale è invisibile ai radar dell’informazione. Salvo quando accade qualcosa di eclatante, che cattura 5 minuti d’attenzione: come il colpo di stato del 5 settembre 2021, sbrigativamente banalizzato come l’ennesimo golpe africano, che ha rimesso il paese “in transizione”.

I militari golpisti acclamati a Conakry (Reuters – Souleymane Camara)

Tre mesi fa, alle prime luci dell’alba, il 41enne colonnello Mamady Doumbouya – dopo una fulminea carriera nella Legione Straniera francese, a soli tre anni dal rientro in patria a capo delle Forze Speciali – ha destituito l’83enne presidente della repubblica Alpha Condé, suo ammiratore e protettore. Tutto in poche ore: la calma regnava nella capitale Conakry già in serata, salvo immediate scene di giubilo di parte della popolazione. Disciolto il governo e tutte le istituzioni, sospesa la Costituzione e imposto il coprifuoco, il capo del Cnrd ha denunciato «la politicizzazione della pubblica amministrazione, la povertà e la corruzione endemica», che hanno imposto all’esercito di salvare la nazione, suo preciso dovere.

Doumbouya ha annunciato una nuova transizione senza concessioni al politicamente corretto: «La Guinea è bella: non abbiamo più bisogno di violentarla. Dobbiamo piuttosto fare l’amore con lei». Contemporaneamente, ha fatto sfoggio di lucida praticità: «Guardate lo stato delle nostre strade, lo stato dei nostri ospedali: è chiaro che dopo 72 anni è ora di svegliarsi. Non affideremo più la politica a un uomo, affideremo la politica al popolo».

Il colonnello Doumbouya in una parata del 2018 (DR Dirpa-Guinée)

Parole non di circostanza, quelle del colonnello: ogni suo comunicato ripropone il richiamo all’incostituzionalità del regime del presidente deposto, definito senza giri di parole un dittatore. Il colonnello, sin dalla prima diretta televisiva, si è riferito all’infame terzo mandato di Alpha Condé, vinto nell’ottobre 2020 con un sospetto 60%, fra violenze e proteste. Le terza rielezione, dopo 2010 e 2015, è stata possibile con una riforma costituzionale approvata al 92% per mezzo di sfacciate frodi referendarie nel marzo 2020, nel contesto di scontri, abusi, arresti, uccisioni, intimidazioni. Non è dunque stato un caso, se fra i primi atti il nuovo presidente ha disposto il rilascio immediato dei prigionieri politici, da mesi spariti nelle carceri.

“Democratura” etnica e personalizzata
Più che epilogo, siamo dunque di fronte alla nuova tappa di una situazione politica e socio-economica incancrenita.

Indipendente dal 1958, sotto Seku Touré la Guinea ha subito una pesante dittatura comunista, protrattasi fino alla morte del rais nel 1984, quando – con un golpe – il colonnello Lansana Conté instaurò un regime liberale: maschera sotto la quale il paese ha vissuto un autentico banditismo di stato, fino alla morte del presidente, nel 2008. Il successivo regime golpista, guidato dal comandante Dadis Camara, durò fino al 2009, quando pesanti violazioni dei diritti umani e il tentato assassinio dello stesso comandante posero fine alla giunta militare. La transizione condusse alle prime elezioni democratiche nel 2010, sancendo la vittoria di Alpha Condé, eroe della resistenza. Ma il decennio democratico ha prodotto delusioni e fallimenti.

Alpha Condé con i soldati delle Forze Speciali che lo hanno arrestato (DR)

La ‘’democratura’’ personalizzata di Alpha Condé, infatti, è degenerata in un regime etnico: il presidente, d’etnia Malinké (29,4% della popolazione), ha infiltrato la politica in ogni fibra della società e creato discriminazioni soprattutto contro i Fulani (33,4% del totale). Le altre etnie, Susu (21,2%), Guerze (7.8%), Kissi (6.2%), Toma (1.6%), giocano il ruolo di comparse, all’interno di una sistematica manipolazione, non senza gravi massacri (2013 e 2020).

Il culmine del malcontento è giunto con il Covid19: le restrizioni sono divenute una palese scusa per repressioni, ulteriori limiti alle manifestazioni, arresti arbitrari.

Arretratezza a tutti i livelli
Le promesse disattese sono dunque patenti e il bilancio del lungo decennio democratico impietoso.

La Guinea, nota in Africa come “lo scandalo geologico”, per le sue sterminate ricchezze minerarie, è 178ª al mondo (su 189 paesi) per Indice di Sviluppo umano; 14 ª su 179 fra i paesi più fragili al mondo; con 38 punti su 100 per indice di libertà nel 2020. Ma l’emergenza non riguarda solo le libertà civili. Sul versante sociale, la situazione igienico-sanitaria è preoccupante: la Guinea è il 7° paese al mondo per mortalità da malaria (49,18 morti su 100 mila abitanti), mentre 84,16 persone su 100 mila muoiono per diarrea; sono solo 3 i posti letto e 8,3 i medici ogni 100 mila abitanti; ancora, il 30,3% dei bambini sono malnutriti e 100,8 su 1.000 muoiono prima dei 5 anni; il tasso di mortalità per parto (576 su 100 mila) è tra i più alti al mondo, mentre il 94,5% delle donne è vittima di escissioni genitali. Anche i servizi educativi sono carenti, con solo il 32% degli adulti alfabetizzati.

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Ma, a dispetto delle ricchezze, la vera questione è economica. Il 36,1% della popolazione vive sotto la soglia di povertà (1,9 dollari Usa al giorno). La disoccupazione è al 4,3%, dato riferito alla sola economia formale: ma il 96% dell’economia è sommersa. Dilagano pertanto sottoimpiego e working poor.

E poi c’è l’arretratezza infrastrutturale. Basta uscire dalla capitale per vedere lo stato della rete viaria. Non si tratta solo di scomodità: il settore imprenditoriale è privato ogni anno di cifre inverosimili per incidenti da scarsa manutenzione, mentre la Guinea registrava nel 2020 ben 38 morti in strada su 100 mila abitanti, 20° paese dalle strade più pericolose al mondo. La crescita economica registra un fuorviante 8,2% annuo, dato che occulta la mancata distribuzione e gli abusi che hanno accompagnato l’apertura dei siti estrattivi di bauxite. La popolazione ha pagato (in termini di impatto ambientale, esproprio delle terre, disoccupazione) la totale opacità della negoziazione dei contratti.

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Una ragione demografica
Il clima sociale non poteva dunque, prima del “golpe” di inizio settembre, essere di maggiore insofferenza e stanchezza contro le ipocrite finzioni democratiche. «La Guinée c’est le monde à l’envers. La Guinea è il mondo a rovescio. La democrazia l’aveva sequestrata “Lui”: ora i militari ce la ridaranno. Ora si cambia: avremo giustizia, non falsi sermoni», sentenzia un convinto oppositore del vecchio regime. Più sobrio e imparziale, ma altrettanto netto, il parere dell’attivista dei diritti umani: «È una strana primavera quella africana: la rivoluzione la fanno i militari. Non so dire, sulla giustizia. Aspettiamo. Doumbouya non è il primo “uomo della provvidenza” in uniforme. In Guinea non è mai troppo tardi per ubriacarsi, ed è sempre troppo presto per brindare».

Un’indicazione preziosa, sulle ragioni profonde, la fornisce un esperto delle vicende politiche del paese: «C’è una questione di identificazione, una questione demografica: non la vede chi non la vuole vedere». Come altrove in Africa, infatti, la Guinea è un paese di millennial, età media 19 anni (il 60,5% della popolazione ne ha meno di 24, il 41,2% meno di 14, mentre gli over 65 sono il 3,91%). E siamo solo all’inizio: ogni donna ha in media 4,89 figli, per cui il tasso di incremento demografico (2,76%) risulta il 13° più alto al mondo.

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Guinea, un paese di millennial: età media 19 anni, il 60% ha meno di 24 anni


Non a caso, il nuovo uomo forte è un giovane militare che promette rottura: «Difficile rimpiangere un 83enne che ha letteralmente ucciso per un nuovo doppio mandato, con l’intenzione di restare al potere fino ai 95» dichiara un giovane di Conakry. «Era diventanta una cosa ridicola. Hai 83 anni, il tuo nome è nella storia, che vuoi fare ancora? Un uomo in Africa a 60 già si riposa. A 83, insisiti per continuare? Mais allez…», fa eco un’altra voce.

Le manomissioni e il personalismo dell’ex presidente hanno insomma assestato un colpo violento alla democrazia. Diffondendo nel popolo stanchezza e disincanto. Anche a livello regionale, le proteste dei leader dei paesi vicini contro il colpo di stato sono state timide, nella consapevolezza della gravità di quello che era in atto sotto la finzione delle elezioni; a livello internazionale, solo le rimostranze dell’Onu sono state rilevanti.

«La democrazia vive solo su basi economiche e sociali, e con cambiamenti visibili nella quotidianità delle persone. Altrimenti proviamo altro!», sintetizza il giovane. Insieme al romanticismo, anche la tolleranza per corruzione e abusi pare arrivata al limite.

In definitiva, in Guinea è di nuovo il momento dell’uomo forte: per la democrazia, come per i brindisi, si può attendere.

Aggiornato il 13/12/21 alle ore 12:39