Il genocidio nascosto
Genocidio è una parola che evoca tragedie lontane dagli occhi, lontane dal cuore. Cambogia, Kurdistan, Ruanda, Darfur. Luoghi esotici disegnati sulla carta di Peters. I morti ammazzati sono per lo più percepiti come milioni di vite di sabbia che sfumano nel tempo inarrestabile della Storia, ingrassando la pancia della sua simbolica clessidra. Ma per gli yanomami, il genocidio è la Storia che si vive nel qui e ora, una Storia fatta, per dirla alla Foer, di un presente molto forte, incredibilmente vicino che nel silenzio mediatico continua a uccidere. E lo fa con la complicità del mercurio, della fame, della violenza.
Gli yanomami sono fra le popolazioni indigene dell’Amazzonia che nei secoli hanno saputo resistere all’invasione dei colonizzatori. Vivono nelle foreste pluviali e sui monti, al confine tra Brasile settentrionale e il Venezuela meridionale. Nello stato brasiliano la loro riserva occupa 80 mila chilometri quadrati (più o meno il doppio della Svizzera), dei 224 mila che costituiscono il territorio dello stato di Roraima. Ma oggi, la loro esistenza è minacciata da una duplice violenza invasiva: quella dei cercatori d’oro, i garimpeiros, che da decenni, estraendo l’oro, flagellano le terre del popolo yanomami, e quella del governo brasiliano responsabile di un’indolenza politica che uccide.
Un genocidio che non fa rumore
Negli ultimi quattro anni, un bambino yanomami sotto i cinque anni è morto ogni sessanta ore a causa di fame, dissenteria acuta o malaria, portando il totale delle vittime a 570. Questi decessi sono le “vittime collaterali” di un’invasione che ha travolto il loro territorio restituito legalmente nel 1992. La terra degli yanomami è stata infatti invasa da circa ventimila “garimpeiros”, minatori illegali che lavorano per le mafie dell’oro, una presenza ormai cronica sin dagli anni Novanta. Tuttavia, durante il governo di Jair Bolsonaro, la situazione è peggiorata drasticamente, con un incremento della presenza dei minatori che ha raggiunto un incredibile +3.350% rispetto al 2016.
L’irruzione dei minatori ha avuto effetti devastanti: i casi di malaria tra gli yanomami sono aumentati di sette volte. L’inquinamento dei fiumi, provocato dal mercurio usato per l’estrazione dell’oro, ha contaminato le risorse idriche e distrutto la fauna locale. I fiumi, un tempo fonte di vita, sono ora avvelenati, i pesci sono morti e la cacciagione è scomparsa, fuggita a causa del rumore incessante delle scavatrici. Le terre, impoverite e contaminate, non sono più fertili. Il risultato è una catastrofe umanitaria che, purtroppo, è ben conosciuta in Brasile, anche se i numeri precisi sono emersi solo di recente, grazie al lavoro di inchiesta del sito Sumaúma, gestito da giornalisti indipendenti che si occupa di reportage e indagini relative allo sfruttamento delle terre e delle popolazioni indigene.
Fin dal 2019, diverse associazioni yanomami hanno denunciato la situazione, così come il Consiglio Indigenista Missionario (Cimi), la diocesi di Roraima, la Rete Ecclesiale Panamazzonica (Repam) e la Conferenza Ecclesiale dell’Amazzonia (Ceama). Le accuse, ampiamente documentate, hanno portato a sei verdetti da parte di tribunali, inclusa la Corte Suprema brasiliana. Nel giugno del 2021, la Corte Suprema ha ordinato al governo di Jair Bolsonaro, che sosteneva le attività minerarie nelle riserve indigene, di proteggere gli yanomami. Tuttavia, nessuna delle sentenze è stata rispettata. Anzi, la situazione è peggiorata ulteriormente, con i fondi destinati alla salute dei nativi di Roraima progressivamente tagliati. In molti dispensari, i medicinali sono spariti, e circa diecimila bambini non sono riusciti a curarsi per mancanza di farmaci, con molti di loro affetti da parassiti intestinali.
La situazione a livello politico
Nel 2023, ogni due giorni un indigeno è stato assassinato in Brasile, portando il totale delle vittime a 208, un aumento del 15,5% rispetto all’anno precedente. A denunciare l’escalation della violenza è il Cimi, che da oltre 50 anni difende i diritti dei popoli nativi brasiliani. La maggior parte delle violenze si concentra in Amazzonia, dove la lotta per il controllo delle risorse naturali è particolarmente feroce.
Nel report del Cimi, si segnalano anche 273 casi di invasione delle terre da parte di cacciatori di risorse e oltre 1.200 episodi di danni al patrimonio. Questi attacchi coinvolgono 202 comunità indigene e minano ulteriormente la già precaria sicurezza dei nativi. Tra i dati più drammatici, emergono le morti di 1.400 bambini sotto i 4 anni e 111 adulti, vittime di malattie facilmente prevenibili a causa della carenza di assistenza sanitaria. Inoltre, il fenomeno del suicidio tra i nativi è in aumento: nel 2023 sono stati 160 i casi di suicidi, spesso legati a violenze e minacce subite.
Questi numeri pesano sul primo anno del governo di Lula da Silva, che aveva promesso di fare della tutela degli indigeni una priorità. Nonostante l’istituzione di un ministero specifico, guidato dall’attivista Sonia Guajajara, e la promessa di un ritorno al processo di restituzione delle terre, la situazione resta drammatica. Fino ad oggi, solo otto terre sono state effettivamente restituite, un numero insufficiente rispetto alla gravità della situazione.
L’impasse si spiega con la forte opposizione politica dentro e fuori il Congresso, dove Lula non ha la maggioranza. La destra conservatrice, tra cui la potente bancada ruralista, ha ostacolato ogni iniziativa favorevole agli indigeni, spingendo per l’approvazione di una legge che limita la restituzione delle terre alle sole comunità che le occupavano al momento della promulgazione della Costituzione del 1988. Questo provvedimento, noto come “limite temporale” (marco temporal), escluderebbe la maggior parte delle terre ancora in disputa, una misura che la Corte Suprema ha dichiarato incostituzionale nel settembre 2023, ma che continua a essere sostenuta dalle forze ultra-conservatrici.
«Il marco temporal è il costante tentativo di rivedere e distruggere i diritti sanciti dalla Costituzione federale dell’88 sui territori indigeni. È una guerra continua che il legislativo fa contro la vita, il movimento, le comunità, i territori indigeni. Non puoi mai abbassare la guardia, sei sempre sotto aggressione. Cambia il nome della legge ma i contenuti sono gli stessi», racconta Corrado Dalmonego, mantovano, missionario della Consolata e antropologo che vive da vent’anni in Brasile. Svolge la sua missione a stretto contatto con i popoli indigeni Yanomani nello Stato del Roraima. Il missionario è stato in Italia lo scorso ottobre insieme al leader indigeno Julio Ye’kwana e insieme hanno portato la loro testimonianza in diversi incontri in Vaticano e a Roma. Della lotta degli Yanomani padre Dalmonego si è fatto portavoce da anni e non smette di denunciare una situazione drammatica di impoverimento e degrado causata dallo sfruttamento minerario.
Padre Corrado Dalmonego, missionario in Amazzonia, racconta lo sfruttamento delle terre yanomami
« Con il marco temporal – continua padre Dalmonego – i popoli indigeni perderebbero il diritto alle loro terre, a condizione che non si possa dimostrare la loro presenza prima dell’ottobre 1988, data della promulgazione della Costituzione brasiliana. Le comunità indigene dicono “non potevamo esserci perché siamo stati cacciati dalle nostre terre. Allora mettiamo il marco temporal al 1500 quando Pedro Àlvares Cabral è arrivato in Brasile, di sicuro ci sarebbe un bel flusso di transatlantici che tornano verso l’Europa».
A preoccupare il missionario e tutta la comunità yanomami è il processo di corruzione dei giovani indigeni da parte dei garimpeiros. «I nostri ragazzi vengono aliciados, ossia circuiti dai garimpeiros. Questi hanno diffuso la fascinazione per le armi, la violenza, la droga, i soldi facili. Difficile tornare indietro, come 10 o 15 anni fa. Alle volte la lotta del popolo yanomami, la nostra lotta, sembra quella di Davide contro Golia. Ma gli yanomami sono gente paziente, tenace che lotta pacificamente da almeno 500 anni contro la colonizzazione. E combatte soprattutto per raccontare e diffondere la verità. Anche sull’origine dell’oro», continua il missionario.
Il 94% dell’oro importato dal Brasile è illegale e riesce comunque ad essere commercializzato. «Con l’oro avviene lo stesso che si compie con il lavaggio del denaro: si dichiara un’origine diversa per immetterlo nel mercato legale attraverso una semplice autocertificazione. Facile no? E visto che l’Italia per la sua importante tradizione orafa è fra i principali importatori d’oro, bisogna denunciare, chiamare a responsabilità la collettività, perché gli stati non siano fautori di un commercio illegale. I tanti interessi in gioco non valgono la vita di un intero popolo».
Aggiornato il 22/11/24 alle ore 15:57