17 Gennaio 2025

Pellegrini verso Cristo Povero

Non esiste pellegrinaggio senza la dimensione dell’incontro

:: “Pellegrini verso Cristo Povero” don Antonio De Rosa .pdf
Dal 26° Convegno nazionale delle Caritas diocesane (settembre 2000) “Ho avuto fame… l’avete fatto a me. Pellegrinaggi verso Cristo presente nei poveri (Mt 25,31-46)”:
:: Lectio divina don Luca Mazzinghi .pdf
:: “I poveri sacramento di Dio” mons. Pierangelo Sequeri .pdf

______________________

Il testo su sfondo colorato che segue è tratto dalle “Norme sulla Concessione dell’Indulgenza durante il Giubileo Ordinario dell’anno 2025 indetto da Sua Santità Papa Francesco, 13.05.2024″

Proprio «nell’Anno Giubilare saremo chiamati ad essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio» (“Spes non confundit”, 10): l’Indulgenza viene pertanto annessa anche alle opere di misericordia e di penitenza, con le quali si testimonia la conversione intrapresa. I fedeli, seguendo l’esempio e il mandato di Cristo, siano stimolati a compiere più frequentemente opere di carità o misericordia, principalmente al servizio di quei fratelli che sono gravati da diverse necessità. Più precisamente riscoprano «le opere di misericordia corporale: dare da mangiare agli affamati, dare da bere agli assetati, vestire gli ignudi, accogliere i forestieri, assistere gli ammalati, visitare i carcerati, seppellire i morti» (“Misericordiae vultus”, 15) e riscoprano altresì «le opere di misericordia spirituale: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i morti» (ibid.). Allo stesso modo i fedeli potranno conseguire l’Indulgenza giubilare se si recheranno a rendere visita per un congruo tempo ai fratelli che si trovino in necessità o difficoltà (infermi, carcerati, anziani in solitudine, diversamente abili, …), quasi compiendo un pellegrinaggio verso Cristo presente in loro (cfr. Mt 25, 34-36) e ottemperando alle consuete condizioni spirituali, sacramentali e di preghiera.

La vera essenza di ogni pellegrinaggio risiede nella scelta di “mettersi in cammino” e nell’accettazione del proprio ruolo di pellegrino, con tutte le sue rinunce. La tradizione cristiana non limita il pellegrinaggio a un’esperienza momentanea, legata all’eccezionalità dell’evento, ma invita a entrare in uno spirito itinerante, accettando l’imprevedibilità e le sfide del cammino. In questo contesto, “farsi pellegrino” implica innanzitutto la decisione di partire, una scelta che coinvolge l’intera persona, con fiducia, apertura e speranza. Farsi pellegrino è faticare, impegnarsi per raggiungere una meta, ma è anche fraternità e condivisione.

Non può esserci pellegrinaggio senza una strada da percorrere, così come non c’è strada senza fatica e stanchezza. Il cammino aiuta ad accrescere la consapevolezza delle nostre capacità, delle nostre forze, ma anche della realtà che ci circonda.

Non esiste pellegrinaggio senza la dimensione dell’incontro. Lungo la strada si creano nuove conoscenze, si stabiliscono legami, si condivide sia la fatica che la gioia, anticipando l’incontro finale. L’altro diventa un sostegno nel processo di scoperta di sé, accettazione e crescita, permettendo di vivere un amore autentico attraverso l’ascolto e il servizio.

La fatica e la fraternità ci permettono di sperimentare la misteriosa presenza di Dio. Durante quest’anno giubilare vogliamo insieme percorrere le strade ordinarie della nostra vita per poter giungere a Cristo che è nei fratelli e sorelle che vivono la necessità, andare avanti con coraggio, cercando di far tesoro di ciò che abbiamo vissuto, proiettandoci con speranza e gioia verso il domani.  

IN ASCOLTO DELLA PAROLA

DAL VANGELO SECONDO MATTEO (25, 31-46)

31Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. 32Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, 33e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.

34Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, 35perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, 36nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi».

37Allora i giusti gli risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? 38Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? 39Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?». 40E il re risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me».

41Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, 42perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, 43ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato».

44Anch’essi allora risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?». 45Allora egli risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me».

46E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna.

ENTRIAMO NELLA PAROLA

La meditazione che segue prende spunto dagli atti del 26° Convegno nazionale delle Caritas diocesane

Contesto

Ci troviamo all’interno di Matteo 24-25, in un contesto escatologico. Questi capitoli rappresentano globalmente un giudizio sull’agire umano. Il “vangelo della prassi” è rivolto a una chiesa di origine giudaica che tendeva a enfatizzare esclusivamente la fede, trascurando l’importanza dell’azione e pensando di poter mettere da parte completamente la Legge. L’agire del mondo avrà una fine e non ha alcun senso se non è orientato verso il “fare” del Regno, che funge da giudice. D’altra parte, l’arrivo del Regno e del Figlio dell’Uomo non può che conferire nuova forza all’azione umana.

Struttura

Il testo si presenta come un dramma chiaramente diviso in due parti, con una piccola introduzione e una breve conclusione. Per ben quattro volte, due per ciascuna scena, si ripetono i sei esempi di carità: affamato, assetato, nudo, forestiero, malato e in carcere. È evidente dove si focalizzi l’attenzione dell’autore, ma notiamo subito che i sei esempi vengono ripetuti in forma sempre più sintetica e concentrata. Nell’ultima ripetizione, nella risposta dei condannati, Matteo utilizza una serie brevissima conclusa dal verbo «e non ti abbiamo servito» (diakonéo). L’accento non è tanto sui sei esempi, quanto sull’assenza del “servizio” che invece era richiesto.

Lettura

La forma letteraria è quella di un quadro apocalittico in cui il Figlio dell’Uomo è intronizzato tra gli angeli (cfr. Libro delle parabole di Enoch, un testo molto vicino al Nuovo Testamento). In termini apocalittici, viene descritta una scena di giudizio proiettata alla fine dei tempi. L’impronta è tuttavia chiaramente matteana (si pensi, ad esempio, al riferimento al “regno del Figlio dell’Uomo”, per non parlare del vocabolario). L’introduzione prevede la separazione di due categorie di uomini, già anticipata in Matteo 13 con la parabola della zizzania (che presenta un accento diverso: fino al giudizio di Dio, nessuno è in grado di separare il grano buono dalla zizzania).

La lezione finale

Gesù farà emergere all’uomo la piena verità su se stesso. Il “Figlio dell’Uomo” è un personaggio misterioso: “uomo” (cfr. Ezechiele), ma anche Messia escatologico e giudice, come appare già nel Libro delle Parabole. Qui si presenta con tre qualità: la prima è escatologica e regale (il trono della gloria è una delle realtà che secondo i rabbini Dio avrebbe creato all’inizio del mondo). Il Figlio dell’Uomo è un re celeste (è esplicitamente affermato al v. 34) e quindi una figura strettamente legata a Dio. Oltre a essere re, è anche giudice: il suo giudizio è universale. Le genti rappresentano tutti i popoli, non solo i pagani. Inoltre, è anche pastore; il verbo “radunare” è tipicamente pastorale, così come l’immagine della separazione delle pecore dalle capre.

Un altro elemento è la misericordia verso i piccoli. I “fratelli più piccoli”: un’espressione unica nei Vangeli; chi sono esattamente? In Matteo 28,10 i fratelli di Gesù sono gli apostoli; in Matteo 12,48-50 sono coloro che fanno la volontà di Dio, quindi un gruppo più ampio. Qui, i fratelli più piccoli sono i poveri, di ogni categoria. L’insistenza su affamato, assetato, forestiero, nudo, malato e in carcere lo dimostra. Perché proprio queste categorie?

Le opere di misericordia sono tradizionali nella Bibbia (Is 58,7; affamati, nudi, forestieri; cfr. anche Ez 18,7-16; Sir 7,35, malati; Gb 22,7, assetati; mancano i carcerati, ma ci sono attestazioni sul seppellire i morti in Tobia). Tuttavia, non sono infrequenti nemmeno nella tradizione giudaica successiva e persino al di fuori della Bibbia; la misericordia verso queste categorie di persone è un fenomeno religioso comune. Affamato e assetato vanno insieme al forestiero; non dimentichiamo che nell’AT il forestiero è protetto con la motivazione: «perché anche tu sei stato forestiero» (Dt 10,19). Queste categorie di persone devono essere protette perché rappresentano ciò che Israele stesso è stato o potrebbe ancora essere.

Nota sulla tradizione giudaica

Nel Midrash su Dt 13,5 si legge: «Voi seguirete il Signore vostro Dio!». «Può un uomo seguire veramente Dio quando nello stesso libro è detto che il Signore tuo Dio è un fuoco che consuma? Questo significa che bisogna seguire la condotta di Dio». E nel Midrash su Dt 15,9 («Non chiudete il cuore al bisognoso»): «Figli miei, se voi avrete dato da mangiare ai poveri, io vi ascriverò come se aveste sfamato me stesso». Tuttavia, mai Dio si identifica personalmente con i poveri.

In Matteo, invece, il Figlio dell’Uomo è presente nel povero. “L’avete fatto a me” ha dunque una portata cristologica. Nel linguaggio biblico, infatti, Gesù applica a se stesso l’immagine di un Dio che ama l’uomo, tanto da considerare come fatto a se stesso ciò che viene fatto all’uomo. Ma qui sta la novità: Gesù non dice «è come se lo aveste fatto a me» (come nel Midrash); ma afferma «l’avete fatto a me». Gesù non è un modello di povertà, è il povero stesso.

Il tema della fede

Di per sé non è richiesta qui la fede; nessuno dei due gruppi sapeva di aiutare o meno Gesù. Per Matteo, è più importante una prassi obiettiva di amore che non una prassi esplicitamente motivata dalla fede. Non dimentichiamo che Matteo non ha in mente un umanitarismo facile – oggi molto di moda. La conclusione del suo Vangelo insisterà sulla necessità di credere (Mt 28,19-20). Eppure, la prassi di un amore concreto è già vista, in qualche modo, come un modello di fede. Potremmo dire che per Matteo la fede consiste nel riconoscere nel fratello più piccolo la presenza di Cristo.

La prospettiva finale

La vita eterna o la morte eterna. Ancora una volta, la conclusione della parabola non va dimenticata, anche se per alcuni aspetti è dura! Sull’amore si gioca il destino dell’uomo. Notiamo come Matteo privilegi il momento della salvezza: «Ricevete il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo». Per gli uomini c’è solo il regno, e questo fa parte del progetto creazionale di Dio; creazione e salvezza si intrecciano. «Il fuoco eterno preparato per il diavolo e i suoi angeli»: qui sparisce il riferimento alla creazione e non si dice che il fuoco è “per voi”; non è Dio a destinarlo agli uomini per punirli, ma sono loro stessi a sceglierlo.

PER LA RIFLESSIONE

Dall’Omelia di Natale 2024 di Papa Francesco

«Questo è il nostro compito: tradurre la speranza nelle diverse situazioni della vita. Perché la speranza cristiana non è un lieto fine da attendere passivamente, non è l’happy end di un film: è la promessa del Signore da accogliere qui, ora, in questa terra che soffre e che geme. Essa ci chiede perciò di non indugiare, di non trascinarci nelle abitudini, di non sostare nelle mediocrità e nella pigrizia; ci chiede – direbbe Sant’Agostino – di sdegnarci per le cose che non vanno e avere il coraggio di cambiarle; ci chiede di farci pellegrini alla ricerca della verità, sognatori mai stanchi, donne e uomini che si lasciano inquietare dal sogno di Dio, che è il sogno di un mondo nuovo, dove regnano la pace e la giustizia».

  • Come sto vivendo questo Giubileo? Ho deciso di mettermi in cammino, di essere pellegrino?
  • Riconosco Gesù nei fratelli e sorelle che sono nel bisogno?
  • Come posso tradurre la speranza nelle diverse situazioni della vita?

Archivio blog “#allAnima”

Aggiornato il 17/01/25 alle ore 12:37