Riparativa? Finalmente si può
Per giungere alla proposta di riforma del processo penale che viene votata dalle camere tra agosto e settembre, il parlamento aveva insediato una commissione di studio per elaborare proposte di riforma del processo e del sistema sanzionatorio penale, nonché delle regole sulla prescrizione dei reati. Nella relazione della commissione Lattanzi, pubblicata a fine maggio, la ministra Marta Cartabia esprimeva (a pagina 71) concetti rilevanti sul tema della giustizia riparativa: «Non posso non osservare che il tempo è ormai maturo per sviluppare e mettere a sistema le esperienze di giustizia riparativa, già presenti nell’ordinamento in forma sperimentale, che stanno mostrando esiti fecondi per la capacità di farsi carico delle conseguenze negative prodotte dal fatto di reato, nell’intento di promuovere la rigenerazione dei legami a partire dalle lacerazioni sociali e relazionali che l’illecito ha originato. Le più autorevoli fonti europee e internazionali ormai da tempo hanno stabilito principi di riferimento comuni e indicazioni concrete per sollecitare gli ordinamenti nazionali a elaborare paradigmi di giustizia riparativa che permettano alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se entrambi vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale. Non mancano nel nostro ordinamento ampie, benché non sistematiche, forme di sperimentazione di successo e non mancano neppure proposte di testi normativi che si fanno carico di delineare il corretto rapporto di complementarità fra giustizia penale tradizionale e giustizia riparativa. In considerazione dell’importanza delle esperienze già maturate nel nostro ordinamento, occorre intraprendere una attività di riforma volta a rendere i programmi di giustizia riparativa accessibili in ogni stato e grado del procedimento penale, sin dalla fase di cognizione» (corsivi aggiunti).
Le fonti internazionali parlano chiaro
Le indicazioni della ministra assumono grande rilievo, in vista di un’evoluzione normativa in grado sia di agevolare il superamento di alcune visioni pregiudiziali (la giustizia riparativa quale risposta indulgente, sbilanciata sugli interessi degli autori di reato, disattenta alla vittima), diffuse nell’opinione comune e non di rado presenti anche nei contesti esperti, sia di contenere il rischio di una “corruzione” dei principi della giustizia ripartiva stessa, per effetto della prevalente tradizione penalistica.
La giustizia riparativa non è una risposta sbilanciata sugli interessi degli autori di reato e disattenta alla vittima: il focus è sulla rigenerazione dei legami
A proposito di giustizia ripartiva, occorre dunque ribadire che:
- i principi di riferimento sono quelli definiti dalle fonti europee e internazionali;
- il focus non è sul reato, ma sulle sue conseguenze;
- l’obiettivo è la rigenerazione dei legami, in un senso ampio, che include la comunità (“lacerazioni sociali e relazionali”);
- va stabilito un corretto rapporto di complementarità fra giustizia penale e giustizia ripartiva;
- va prevista l’accessibilità dei programmi di giustizia riparativa in ogni stato e grado del procedimento penale;
- vanno confermate la partecipazione volontaria e attiva al programma e la presenza di un terzo imparziale.
Tali passaggi trovano chiara declinazione normativa nel nuovo articolo 9-quinquies del disegno di legge a.c. 2435 sulla riforma del processo penale e altrettanto chiare argomentazioni nella relazione della commissione Lattanzi.
Il richiamo alle fonti europee e internazionali è di importanza cruciale per un corretto inquadramento del tema della giustizia riparativa: in primo luogo, la Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, e la Raccomandazione del Consiglio d’Europa relativa alla giustizia riparativa in materia penale Cm/Rec(2018)8, ma anche lo Handbook on Restorative Justice Programmes, pubblicato nel 2020 da Unodc (l’Ufficio Onu per il controllo della droga e la prevenzione del crimine).
Già la definizione di giustizia riparativa presente nella Raccomandazione del 2018 ne chiarisce il paradigma: «Il termine “giustizia riparativa” si riferisce a ogni processo che consente alle persone che subiscono pregiudizio a seguito di un reato e a quelle responsabili di tale pregiudizio, se vi acconsentono liberamente, di partecipare attivamente alla risoluzione delle questioni derivanti dall’illecito, attraverso l’aiuto di un soggetto terzo formato e imparziale (“facilitatore”)» (Regola 3).
Tale definizione non parla di autore di reato e di vittima, ma di persone: chi ha subito pregiudizio e chi ne è responsabile. Lo sguardo viene così spostato dalle etichette, tipiche della norma penale, alla qualità umana di chi è coinvolto nelle conseguenze del reato, cioè nel danno. Si tratta di un’indicazione rilevante, che peraltro apre alla possibilità di applicare la giustizia riparativa in ogni fase del procedimento, dalla fase di cognizione a quella esecutiva della pena: esattamente in questa direzione si muove la proposta della Commissione Lattanzi.
Restando sugli aspetti terminologici, la Raccomandazione non si riferisce al reato ma al pregiudizio che questo ha comportato, quindi alle sue conseguenze, al danno, alla sofferenza che è, in primis, della vittima ma anche della comunità, per l’insicurezza che ne deriva, perché sono stati violati obblighi di convivenza (a partire dal rispetto reciproco), nonché dell’autore, sottoposto all’inflizione di una pena i cui effetti si ripercuotono anche su altre componenti della comunità (a cominciare dalla famiglia, incluse persone di età minore che vengono private del diritto fondamentale alla continuità affettiva, non per effetto del reato ma delle risposte allo stesso, e coinvolte, non per loro colpe, nei processi dello stigma sociale).
Dal comportamento alla responsabilità
La visione affermata sposta l’accento dal comportamento agito, che la giustizia penale deve valutare in termini di attribuzione di responsabilità e conseguente risposta (ottica reattiva) a ciò che ne è conseguito e che la giustizia riparativa può affrontare a partire dai bisogni della vittima conseguenti al danno, in particolare per la sofferenza provata, e in termini di responsabilità dell’autore, qui intesa nell’accezione dell’inglese accountability, ovvero del rendere conto per la violazione di persone e di obblighi (ottica pro-attiva) (per tutti: si legga Zehr, 1990; 2002).
Lo sguardo viene spostato dalle etichette, tipiche della norma penale, alla qualità umana di chi è coinvolto nelle conseguenze del reato, cioè nel danno
Per la giustizia riparativa, quindi, la centratura non è sull’autore del reato, che deve rispondere alla legge e allo Stato (ottica reo-centrica), ma sul danno che contiene in sé, inestricabilmente, tre protagonisti: la persona danneggiata, che ha bisogno di riparazione e protezione; chi è responsabile dell’atto, per ridurre il rischio di recidiva e lavorare per una vita migliore; la comunità, con un interesse alla reintegrazione di ambedue i soggetti precedenti (si veda il “modello bilanciato” della giustizia ripartiva, in Campbell, Chapman e McCredy, 2002 e Chapman, 2012). Tutte e tutti hanno bisogni e interessi, che la commissione Lattanzi considera con il criterio dell’equità tipico della giustizia riparativa, anche e soprattutto quando le parole usate nella relazione pongono opportunamente in evidenza il “prevalente interesse della vittima” (articolo 9, comma 1, lettera d): un’evidenza di rilievo, se pensiamo alla tradizionale esclusione della vittima da una procedura che è di suo interesse. La vittima, infatti, non ha una posizione agentica nel processo tradizionale, tutto teso a verificare fatti, attribuire colpe e responsabilità, comminare pene. Citando Nils Christie (1977), la vittima perde due volte, prima nel reato, poi nell’iter della giustizia penale.
Invece chi ha subito un danno ha bisogni di conoscenza, di parola, di recupero di empowerment rispetto alla propria esistenza: la commissione precisa che i servizi di giustizia riparativa devono costituire un diritto per le vittime.
Il ruolo della comunità è importante
Una questione strettamente collegata, probabilmente il principale rischio per un’attuazione effettiva (e consapevole) della giustizia riparativa nel nostro paese, è la presenza, in alcune norme, di un lessico riparativo che, nella sostanza, è chiaramente svincolato dai fondamenti e principi del paradigma riparativo, a partire dal fatto che tali norme non sono pensate nell’interesse della vittima. Un esempio: la possibilità di prescrizioni riparative nell’ambito della sospensione del processo e messa alla prova della persona minorenne, prevista dall’art. 28 Dpr 448/88. Ma la messa alla prova ha finalità legate esclusivamente al processo e all’evoluzione della personalità dell’adolescente: non è la vittima a esservi interessata, né i suoi bisogni; come può essere interessata a partecipare, se non per un atteggiamento clemente nei confronti di una persona di età minore?
Allo stesso modo, l’articolo 168-bis del Codice penale introduce la sospensione del processo con messa alla prova per le persone maggiorenni, e prevede condotte tese a eliminare le conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato e, ove possibile, il risarcimento del danno; ma non sono la vittima né la comunità (lo stesso articolo prevede lavori di pubblica utilità) fonti ispiratrici della previsione normativa, pensata piuttosto per finalità deflattive. E si pensi ancora ai procedimenti di competenza del Giudice di pace, nei quali il criterio di valutazione delle previste attività risarcitorie e riparatorie è che le stesse siano «idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione»: finalità tipiche della giustizia penale, che non attengono al piano delle relazioni e delle conseguenze dannose per la vittima.
La Raccomandazione, inoltre, include esplicitamente la comunità: «La giustizia riparativa prende sovente la forma di un dialogo (diretto o indiretto) tra la vittima e l’autore dell’illecito, e può anche includere, eventualmente, altre persone direttamente o indirettamente toccate da un reato. Ciò può comprendere persone che sostengono le vittime o gli autori dell’illecito, operatori interessati e membri o rappresentanti delle comunità colpite». (Regola 4).
Il ruolo della comunità è importante, sia quando direttamente coinvolta nelle conseguenze del reato sia, più in generale, per il possibile intervento di facilitatori volontari. Lo Handbook on Restorative Justice Programmes ne evidenzia i possibili benefici, accanto, ovviamente, alle attenzioni da tenere, con particolare riguardo alla loro necessaria formazione: «La loro presenza aiuterà a creare legami più profondi tra la comunità e il sistema giudiziario. […] può anche consentire ai membri della comunità di sviluppare competenze e di assumere un ruolo importante nella risposta alla criminalità e ai disordini sociali nella loro comunità, nonché di facilitare la risoluzione dei problemi e il reinserimento di autori e vittime» (pagine 91-92).
Facilitatore, non mediatore
Le Regole 3 e 4 del testo della commissione Lattanzi aprono quindi a due importanti aspetti: la varietà dei programmi di giustizia riparativa (approfonditi nello Handbook delle Nazioni Unite, che la Commissione richiama esplicitamente sul punto), che non vengono limitati a quello più conosciuto nel nostro paese, la mediazione; la previsione della figura e la definizione delle funzioni di una parte terza (il facilitatore).
È interessante soffermarsi su quest’ultima questione. Già i Basic principles on the use of restorative justice programmes in criminal matters avevano utilizzato, nel 2000, il termine “facilitatore” e non “mediatore”, affermando in tal modo il significato della funzione (piuttosto che la sua applicazione a uno specifico programma che, peraltro, include solo due delle tre parti): la nuova figura deve facilitare processi finalizzati a esiti riparativi. Il facilitatore è insomma la parte terza, formata e imparziale, la cui imparzialità, negli incontri-processi riparativi, assume il significato di equità e “multi-parzialità”, per rappresentare l’equi-prossimità a tutte le parti (vedi anche Efrj, 2018). Tale figura ha dunque lo specifico ruolo di costituire un riferimento sicuro, in base al quale bisogni e interessi delle parti possano avere voce e gli esiti riparativi possano essere raggiunti.
In questo senso si esprime anche la Raccomandazione, che riconosce «la giustizia riparativa come metodo attraverso il quale i bisogni e gli interessi di queste parti possono essere identificati e soddisfatti in maniera equilibrata, equa e concertata». È altrettanto chiaro e rimarcato, nella Raccomandazione e nei vari documenti internazionali, così come nella relazione della Commissione, che una formazione specifica alla giustizia riparativa debba essere rivolta anche ai professionisti della giustizia penale, non certo perché possano agire nel ruolo di facilitatori (non potrebbero avere una posizione terza, posto il loro mandato istituzionale), ma per poter effettuare invii competenti alle agenzie di giustizia ripartiva, favorire la promozione di una cultura ispirata a principi e valori della giustizia riparativa all’interno delle agenzie penali, promuovere e coordinare l’uso della giustizia riparativa nelle loro organizzazioni, infine favorire collegamenti con altre organizzazioni e comunità per lo sviluppo della giustizia riparativa (Unodc, 2020).
Accesso ai programmi senza preclusione
È su questo sfondo che la Commissione Lattanzi presenta una proposta di chiaro stampo innovativo, definendo le condizioni perché la giustizia riparativa possa trovare applicazione nel nostro paese, nel rispetto dei suoi principi e in accordo con il sistema legale.
Considerata anche la Direttiva 2012/29/UE, il passaggio preliminare è quello di una «disciplina organica della giustizia riparativa quanto a nozione, principali programmi, garanzie, persone legittimate a partecipare, con particolare riferimento alla vittima e all’autore del reato» (articolo 1 lettera a). Sono conseguentemente da disciplinare: la formazione degli operatori pubblici e privati (lettera b) e l’organizzazione dei servizi di giustizia riparativa (lettera c). Essenziale è la previsione di «specifiche garanzie per l’attuazione dei programmi di giustizia riparativa» (lettera d): informazioni chiare, complete, effettive e tempestive circa i servizi di giustizia riparativa disponibili, da rivolgere sia alla vittima che all’autore; la volontarietà; il consenso, che può essere ritrattato in ogni momento; l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese nel corso del programma di giustizia riparativa (salvo che si configuri un reato o che vi sia il consenso delle parti); la non utilizzabilità dell’esito del percorso riparativo con effetti pregiudizievoli (con la conseguenza che sia indagata, imputata o condannata) per la persona responsabile del reato. Alla lettera e), infine, si afferma l’accesso ai programmi di giustizia riparativa senza alcuna preclusione: sia rispetto alla gravità del reato, che allo stato e grado dell’iter della giustizia penale.
Tre protagonisti: il danneggiato, che chiede riparazione e protezione; l’autore dell’atto, per ridurre il rischio
di recidiva; la comunità, per reintegrare i due soggetti
Un autentico cambiamento di prospettiva
Si tratta ora di attuare un significativo cambiamento di prospettiva, tramite il quale la giustizia riparativa può costituirsi come motore di innovazione sociale e di trasformazione del sistema di giustizia, ferma restando la necessaria complementarità fra giustizia penale e giustizia riparativa.
Tenuti in piena considerazione i diritti delle vittime e le garanzie da riconoscere agli autori dei reati, la Commissione individua gli spazi all’interno dei quali, «ai fini di una piena implementazione della giustizia riparativa», se ne può curare «l’innesto a livello normativo». È a questo livello che le sperimentazioni già attive nel nostro paese, richiamate dalla ministra Cartabia, possono essere rivisitate alla luce dei fondamenti, dei principi e dei valori della giustizia riparativa, così come ampiamente illustrati dalle fonti europee e internazionali, dalla letteratura specialistica e dalla Commissione, attraverso il necessario “svincolo” dall’ottica re-attiva e reo-centrica della giustizia penale. È questo, a mio avviso, il senso della complementarità dei due sistemi, di un’auspicata integrazione, riconosciuta e disciplinata, in grado di rispettare l’impalcatura valoriale della giustizia riparativa e l’autonomia dei suoi percorsi.
In questa prospettiva, le parole della Commissione (a pagina 75) costituiscono una sintesi eloquente: «Occorre consegnare alla politica e alla collettività il valore di un approccio al fare giustizia costruttivo, inclusivo, volto alla riparazione dell’offesa, rispettoso della dignità della vittima e dell’autore di reato – che debbono essere considerati dal sistema in primis come persone – e senza perdita di sicurezza. L’approccio preferibile è quello della complementarità tra giustizia riparativa e sistema penale, che include la possibilità di ricorso ai programmi di giustizia riparativa in parallelo o anche in alternativa al percorso processuale o sanzionatorio, quali tecniche di diversion».
* L’autrice è ordinaria di Psicologia giuridica e pratiche di giustizia riparativa al Dipartimento di Scienze umanistiche e sociali dell’Università degli Studi di Sassari
Aggiornato il 14/10/21 alle ore 22:48