Traversate disperate, accoglienza di popolo
In principio non fu la Vlora. Il mercantile che all’inizio di agosto sbarcò nel porto di Bari circa 20 mila albanesi, non era stato il primo vascello – in quel 1991 – a traversare l’Adriatico per riversare sulle coste pugliesi carichi di fuggiaschi che cercavano Lamerica. «Piccoli sbarchi di nuclei famigliari li avevamo registrati sin dal 1990, la Polizia portava le persone in Caritas con i vestiti ancora fradici», ricorda Bruno Mitrugno, all’epoca direttore della Caritas diocesana di Brindisi. «All’inizio del 1991 si era verificato uno sbarco molto strano, 7-8 militari, di fatto disertori ed esuli politici», gli fa eco don Maurizio Tarantino, allora obiettore di coscienza, da anni direttore di Caritas Otranto. «Noi cercavamo di capire, avevamo sentore del fatto che dall’altra parte del mare la gente cominciava a ribellarsi. Se le autorità centrali avessero prestato attenzione al territorio e ai segnali che ne venivano – chiosa Mitrugno –, ci si sarebbe potuti preparare». Ma le autorità centrali si illudevano, evitando di organizzare l’accoglienza, di poter dissuadere l’esodo per mare. E invece…
Vescovi, pressioni e scuole
E invece istituzioni e territorio furono colti di sorpresa, se non proprio travolti. Nella notte tra il 2 e il 3 marzo, circa 2-3 mila disperati, tutti maschi, tanti minori, alcuni evasi dalle patrie galere albanesi, sconvolsero il piccolo porto turistico di Otranto. A cominciare dal 7 e sino all’11 marzo, poi, una sequela di pescherecci e bagnarole inondarono Brindisi di quasi 25 mila persone. Tutte imbarcatesi, con la forza della disperazione e l’incoscienza della speranza, a Durazzo e Valona. Tutte liberate dallo sfaldarsi irreversibile di un regime paranoico che, oltre a ridurli al limite della sopravvivenza, «li aveva blindati per decenni, isolati dal mondo e resi invisibili – ammette don Tarantino – anche a noi, loro dirimpettai adriatici».
Gli albanesi arrivavano laceri. E confusi
venivano lasciati a bivaccare sui moli. Finché
lo Stato non fu costretto ad aprire le scuole
Dopo lo sbalordimento, spontanea, generosa, persino commovente prese forma – tra le comunità della costa salentina – quella che senza retorica si ricorda come un’autentica accoglienza di popolo. Con diverse costanti, tra Otranto e Brindisi. A cominciare dall’impatto dirompente su porti, territori, comunità. Gli albanesi arrivavano laceri, e confusi vennero lasciati per giorni a bivaccare sui moli. Finché la situazione umanitaria non si rivelò tanto esplosiva da costringere lo stato ad aprire le scuole, a requisire campeggi e villaggi turistici, ad allestire cucine e ambulatori da campo, per accogliere, sfamare e curare le schiere dei migranti. Anche perché, ricordano tra l’ammirato e il divertito don Tarantino e Mitrugno, gli arcivescovi delle due città pugliesi utilizzarono tutta la loro autorevolezza, esercitando pressioni assai poco curiali sui prefetti. Monsignor Franco, a Otranto, minacciò di rompere personalmente i lucchetti delle scuole per consentire di ricoverare i disperati sotto un tetto, e monsignor Todisco a Brindisi pochi giorni dopo non fu da meno, arrivando ad apostrofare l’altra “eccellenza”: «Se lei non apre le scuole, io apro le chiese».
Minori e contrabbandieri
Altri tempi, altre urgenze. Benché l’impreparazione e l’indolenza degli apparati dello stato, al limite dell’omissione di soccorso, rimandino a vicende del presente. E dunque decisiva, nei momenti e nei giorni iniziali dell’esodo transadriatico, fu la mobilitazione popolare. Insieme al decisivo impegno delle Caritas e di tanti soggetti locali. «Volontari, obiettori, parrocchiani, cittadini sensibili… tutti ci mobilitammo, per portare i beni essenziali ai ricoverati nelle scuole – ricorda don Tarantino –. L’esercito arrivò solo una settimana dopo, e dopo due settimane la solidarietà si trasferì nella tendopoli al camping Frassanito. Il coinvolgimento materiale e organizzativo fu intenso, non di meno quello emotivo. La Caritas si incaricò di individuare i minori, cercare di stabilire canali di fiducia e comunicazione con loro, estrarli dall’ambiente turbolento della tendopoli per distribuirli in famiglie e piccole comunità del territorio. Don Pino Falandria, protagonista di quel lavoro faticoso e sfibrante, morì di infarto il 21 marzo».
Anche a Brindisi la comunità scrisse una straordinaria pagina di accoglienza. «Persino i contrabbandieri smisero di far sbarcare le sigarette dal Montenegro – rievoca Mitrugno –. E c’era chi apriva le proprie case, chi portava coperte e pannolini, chi forniva alimenti, la vecchietta che friggeva uova per la strada, sfamando code interminabili. Poi, con ritardo e quasi controvoglia, cominciarono l’accoglienza organizzata dalle istituzioni e la dislocazione dei profughi in varie parti d’Italia». Meccanismi che si sarebbero rivisti all’opera in conseguenza della crisi delle finanziarie piramidali albanesi, nel 1997, e della guerra in Kosovo, nel 1999. «Intanto, il tam tam della prossimità aveva compiuto il miracolo della mano tesa nell’immediato. Nonostante i seminatori d’odio che oggi imperversano nei social, penso che potrebbe accadere di nuovo: di fronte a emergenze simili, tra la gente c’è una riserva naturale di solidarietà che è pronta a rinnovarsi», considera Mitrugno.
Tendenza al ripiegamento
Sul punto, don Tarantino ha minori certezze: «Quella stagione riaccese nella coscienza delle nostre comunità la consapevolezza, addormentata dalla geopolitica della Guerra Fredda, di essere terre e chiese di frontiera». Eppure un ammonimento – uno straordinario ammonimento – era pervenuto già un decennio prima. Niente meno che da papa Giovanni Paolo II, il quale – il 5 ottobre 1980, in occasione della sua vista pastorale a Otranto, per onorare i Martiri idruntini a 500 anni dal loro sacrifico – aveva apertamente e profeticamente dichiarato «dovuta» la solidarietà «alle persone ed alle comunità [di Albania], i cui diritti fondamentali sono violati o perfino totalmente conculcati». L’obiettivo del Papa polacco, riflette oggi don Tarantino, «era accendere i riflettori su quel paese dimenticato, far accadere qualcosa». Stimolando proprio lo spirito di frontiera, che poi le genti e le Chiese di Puglia seppero incarnare, ma che non si può considerare conquista irrevocabile: «Oggi vedo in atto, anche nella pastorale – si rammarica il direttore di Caritas Otranto – una tendenza al ripiegamento sui bisogni “dei nostri”, che la cattiva politica sfrutta e che ci impedisce di essere comunità pienamente accoglienti. E Chiesa davvero universale».
Coscienze oltre l’emergenza
I tre decenni successivi a quei giorni drammatici ed eroici hanno visto gli albanesi utilizzare le terre di Puglia come piattaforma di dispersione verso altre destinazioni. «Nei centri abitati del Salento si sono stratificate e integrate presenze di nuclei famigliari albanesi, ma sono numeri ridottissimi, rispetto a quelli di chi ha risalito la Penisola e l’Europa», sintetizzano Mitrugno e don Tarantino.
Per entrambi, cruciale è comunque ricordare che le coscienze più avvertite di quei giorni – il direttore di Caritas Italiana, don Giuseppe Pasini, il vescovo don Tonino Bello, tanti altri pastori – spinsero immediatamente la rete Caritas a guardare oltre l’emergenza: nacquero così i gemellaggi nella vicina e sconosciuta terra d’Albania, che hanno fruttato trent’anni di conoscenza reciproca e progetti sul campo; si aprirono centri di accoglienza organizzati e robusti, destinati a operare sino ai nostri giorni, insieme a sportelli giuridici per la tutela dei diritti dei migranti; si acuirono l’attenzione e la cura riservate ai più fragili tra i fragili, dai minori soli alle donne vittime di tratta. Azioni che hanno fruttificato nel tempo, ma i cui esiti non sono acquisiti per sempre. «Gli arrivi sulle nostre coste non sono mai cessati, si sono diluiti. Oggi i migranti, provenienti da lontane terre d’Asia, arrivano su velieri partiti da Grecia e Turchia, o stivati nei camion imbarcati sui traghetti. Ma si è spento il dibattito, anche culturale, sulla loro sorte e i nostri doveri d’accoglienza. E mancano i testimoni autentici ed esemplari, i don Tonino Bello…». L’accoglienza di popolo, striatura di luce nelle trame convulse di 30 anni fa, è insomma un’eredità insieme resistente e fragile. La cui fonte va continuamente ricercata, perché lo spirito non vada tradito.
Aggiornato il 06/05/23 alle ore 10:55