10 Novembre 2022

Accordo per il cessate il fuoco

Etiopia. Dopo due anni di guerra tra le più cruente e dimenticate al mondo, il 2 novembre 2022 è stato siglato un accordo di pace tra il governo federale etiope e il Fronte popolare di liberazione del Tigray. Purtroppo non poche le ombre che incombono sul futuro. Mai come ora le sorti del Tigray e dell’intero paese dipendono dalla volontà di tutti di porre la pace al primo posto.

Dopo due anni di guerra tra le più cruente e allo stesso tempo dimenticate e oscurate del mondo, il 2 novembre 2022 è stato siglato un accordo di pace tra il governo federale etiope e il Fronte popolare di liberazione del Tigray (TPLF). L’accordo è arrivato dopo 10 giorni di negoziati in Sud Africa mediati dall’Unione Africana.

Una guerra che lascia ferite profondissime: mezzo milione di morti, infrastrutture distrutte, centinaia di migliaia di sfollati, scuole e strutture sanitarie distrutti o danneggiati, traumi psicologici diffusi, milioni di persone allo stremo per la mancanza per mesi di cibo, medicine e beni essenziali. Il conflitto ha scavato solchi profondi tra le diverse etnie, divisioni su cui ha fatto leva la propaganda dei leader politici per motivare e legittimare la violenza, che ora si sono acuite drammaticamente. Una guerra feroce che ha colpito duramente la popolazione civile, divenuta intenzionalmente bersaglio delle parti belligeranti e dei loro alleati. Una guerra che ha fatto uso di armi medioevali come l’assedio e la privazione di cibo e medicinali alla popolazione civile nelle aree contese che ha provocato sofferenze e morti per fame o per malattie altrimenti curabili.

Una guerra che lascia ferite profondissime: mezzo milione di morti, infrastrutture distrutte, centinaia di migliaia di sfollati, scuole e strutture sanitarie distrutti o danneggiati, traumi psicologici diffusi, milioni di persone allo stremo per la mancanza per mesi di cibo, medicine e beni essenziali.

La guerra iniziata il 4 novembre 2020 affonda le radici nelle storiche divisioni etniche del paese e nella contesa politica seguita alla deposizione nel 2018 dell’élite tigrina dalla trentennale guida del paese con l’elezione a primo ministro per la prima volta di un non-tigrino, Abiy Ahmed Ali del partito ODP, gli Oromo – etnia maggioritaria, ma esclusa da gran parte della storia nazionale. Dopo un’iniziale accettazione del nuovo corso politico riformista, i rapporti con il nuovo Premier si irrigidirono via via che il governo assumeva sempre più una linea revisionista e di critica al regime precedente. La tensione si fece rovente con l’avvio da parte del premier della politica di superamento del regime federale etnico e la pace con l’Eritrea con cui il TPLF aveva combattuto per vent’anni.

Il punto di svolta fu la fusione a fine 2019 dei partiti che componevano il Fronte democratico rivoluzionario dei popoli etiopi (Eprdf), coalizione che dagli anni Novanta (cioè dal crollo del regime di Menghistu Hailè Mariam), governava l’Etiopia, in un unico partito chiamato Partito della Prosperità. Il partito tigrino del TPLF fu l’unico a rifiutare di confluire nella nuova formazione politica. La scelta di rinviare le elezioni del 2020 per il Covid19, segnò la rottura definitiva, il TPLF denunciò la scelta come un sopruso e tenne comunque le elezioni il 9 settembre 2020 nel solo Tigray. Il governo di Addis Abeba considerò la decisione un atto costituzionalmente illegale e inviò un folto schieramento di truppe al confine con il Tigray. Il 4 novembre 2020 un attacco tigrino a una base militare federale segnò l’inizio della guerra. Da lì vi è stata un’escalation progressiva con il coinvolgimento di altre milizie regionali (Amhara e Oromo) e truppe straniere (eritree e somale), queste ultime in appoggio al governo federale, e di altre potenze per l’invio di armi all’una e all’altra parte. Il conflitto ha avuto varie fasi con alterni ribaltamenti di fronte espandendosi anche alle regioni di Amhara e Afar. Ad aprile 2022, una tregua per consentire l’accesso agli aiuti umanitari aveva fatto sperare nella pace, ma ad agosto i combattimenti sono ripresi e con essi il blocco ai servizi e agli aiuti umanitari in tutte le aree non controllate dal governo centrale.

Foto Ansa

L’accordo siglato il 2 novembre si spera metta fine alle violenze e consenta immediatamente la riattivazione dei servizi e l’accesso agli aiuti umanitari di cui la popolazione ha estremo bisogno. L’accordo prevede una serie di impegni da implementare con successivi negoziati: il disarmo completo delle truppe tigrine e il loro reintegro nell’esercito regolare; l’istituzione di una Amministrazione Regionale Transitoria sino alle elezioni regionali da tenersi sotto la supervisione della Commissione Nazionale Etiope per le Elezioni; l’avvio di un processo giudiziario per i crimini commessi aperto ai contributi della società civile; l’attivazione di un meccanismo di monitoraggio dell’implementazione dell’accordo tramite una commissione congiunta delle due parti presieduta dall’Unione Africana.
Esso però non risolve molte delle questioni alla base del conflitto e necessita di un impegno per la sua concreta implementazione. Non è che l’inizio di un processo di pace che richiederà uno sforzo risoluto delle parti e delle forze esterne che direttamente o indirettamente sono coinvolte nel conflitto a proseguire il dialogo in modo costruttivo e rifiutare tassativamente il ricorso di nuovo alla violenza.

L’accordo siglato il 2 novembre si spera metta fine alle violenze e consenta immediatamente la riattivazione dei servizi e l’accesso agli aiuti umanitari di cui la popolazione ha estremo bisogno.


Purtroppo non sono poche le ombre che da questo punto di vista incombono sul futuro, in primis la non partecipazione ai negoziati dell’Eritrea la quale non ha ancora ammesso ufficialmente la sua partecipazione alla guerra così come la non menzione della questione del Tigray occidentale occupato dalle milizie regionali Amhara accusate di pulizia etnica nei confronti della popolazione tigrina, la mancanza della previsione di un’investigazione internazionale sui crimini commessi, la debolezza del meccanismo di monitoraggio con soli 10 componenti previsti nella commissione ad esso deputata, il malumore della componente tigrina per lo smantellamento delle forze militari regionali (TDF).
Mai come ora le sorti del Tigray e quelle dell’intero paese dipendono dalla volontà di tutti di porre la pace al primo posto, ma questa non potrà radicarsi senza verità e giustizia e senza un percorso di riconciliazione che coinvolga non solo i leader politici ma tutta la popolazione. Da questo punto di vista anche per la Chiesa e le altre confessioni religiose si apre una sfida importante. La guerra ha generato divisioni anche al loro interno che richiedono prima di tutto un cammino di riconciliazione dal di dentro che potrà essere di esempio e volano per la società. Un percorso che non può prescindere dalle ferite materiali e di quelle psicologiche individuali e di comunità a cui la Chiesa sin dall’inizio della guerra sta cercando di farsi carico assieme all’aiuto umanitario. Un percorso difficile, ma l’unico possibile per una Pace che sia duratura e di esempio per l’intera regione e per il mondo intero.

Foto Ansa

Mai come ora le sorti del Tigray e quelle dell’intero paese dipendono dalla volontà di tutti di porre la pace al primo posto, ma questa non potrà radicarsi senza verità e giustizia e senza un percorso di riconciliazione che coinvolga non solo i leader politici ma tutta la popolazione.

Aggiornato il 10/11/22 alle ore 11:00