Qualificare il lavoro, per tutelarlo
Don Bruno Bignami dirige l’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Conferenza episcopale italiana. Nei mesi della pandemia, ha colto, dai territori diocesani, l’ingigantirsi di timori e preoccupazioni per la tenuta dell’occupazione e l’ampliarsi dell’area dello sfruttamento. Ribadisce il sì della Chiesa italiana alla proroga del blocco dei licenziamenti (magari selettiva). Ma avverte: non sprechiamo il tempo che guadagneremo con questo nuovo rinvio. Bisogna riorganizzare il mercato del lavoro e, anche all’interno della Chiesa, rivedere alcuni modelli culturali e organizzativi ormai che minano la dignità dei lavoratori.
Don Bignami, il Covid ha avuto un impatto sensibile sul mondo del lavoro e della produzione. Sospensione di attività economiche, massiccio ricorso alla cassa integrazione, numero di disoccupati e inattivi inasprito: sono fenomeni che rientreranno con la risalita del Pil e l’iniezione di risorse del Pnrr? O temete strascichi sociali prolungati, dovuti a cambiamenti permanenti dell’offerta di lavoro?
Per i dati e le impressioni che abbiamo, mi sembra debba prevalere la seconda prospettiva. Il Pnrr costituirà una grande iniezione di fiducia e offrirà numerose potenzialità, però bisognerà vedere se riuscirà a intaccare l’area della disoccupazione, cioè a creare opportunità lavorative reali e durevoli. O gli investimenti strategici andranno in questa direzione, ampliando l’area sociale delle opportunità, dell’occupazione e dell’inclusione, oppure c’è il rischio che le risorse finiscano nelle mani di chi ha già parecchio e che potrà così rafforzare ulteriormente il proprio potere, a scapito del lavoro. Insomma, la grande sfida è organizzare investimenti che siano davvero a servizio del lavoro. C’è molto timore che questo non avvenga; bisognerà vigilare e premere in questa direzione.
Si parla tanto di blocco dei licenziamenti. Da confermare o da reiterare, da mantenere universale o da rendere selettivo. Tra tutela dei lavori e necessità di non contrastare la selezione “naturale” delle aziende più resistenti e meritevoli di restare sul mercato, qual è la posizione della Chiesa italiana?
Qualche settimana fa il cardinale Bassetti, presidente della Conferenza episcopale, ha incontrato i rappresentanti delle tre organizzazioni sindacali più importanti d’Italia e ha condiviso con loro la necessità di misure che proroghino il blocco. Ciò non significa che non possa rivelarsi utile un blocco più selettivo, con attenzione limitata ad alcune categorie: si può ipotizzare. Ma la grande questione è cosa fare nel frattempo: purtroppo spesso si spostano le date, senza utilizzare il tempo in modo appropriato. Nel caso specifico, senza creare le basi per percorsi di formazione, reinserimento e ricollocamento dei lavoratori rimasti senza occupazione. Non possiamo accontentarci di spostare i drammi di settimana in settimana, dobbiamo creare le opportunità perché chi rimane senza lavoro possa avere prospettive future, differenti rispetto al lavoro che finora ha avuto: su questo mi pare che si vada molto a rilento.
Anche perché il tema travalica il tempo dell’emergenza sanitaria…
Non c’è dubbio. Il tema è quello di un mercato del lavoro rinnovato, anche nel senso di una maggior capacità di qualificare e orientare i lavoratori, anche attraverso un discernimento delle situazioni specifiche dei territori. Non basta dire che c’è un posto di lavoro, bisogna capire sempre meglio se quel posto di lavoro è raggiungibile da qualcuno e se c’è qualcuno che è in grado di rispondere a quella domanda. In questo periodo storico, d’altronde, registriamo il dramma della disoccupazione e della carenza di lavoro, ma anche il fenomeno delle molte richieste di lavoro, magari con competenze settoriali specifiche, che non vengono evase, perché i potenziali aspiranti non hanno la formazione adatta o non si sono creati percorsi per orientare le persone rispetto alle domande nuove che emergono.
Appunto. In alcuni tra i settori più colpiti dalla pandemia (ristorazione, turismo, accoglienze alberghiere, balneazione) si vive il paradosso di una difficoltà a reperire manodopera, dopo le riaperture. Ma secondo quanto vi risulta, questo fenomeno è la spia di timori ancora diffusi per la situazione sanitaria, dell'”impigrimento” favorito dal reddito di cittadinanza e dai sussidi Covid, o di un ricorso sempre più diffuso al lavoro nero e a contratti che offrono scarse sicurezze ai potenziali lavoratori?
Un po’ tutte queste cose insieme. Ciò che è certo, è che bisogna evitare una visione negativa di chi fatica a trovare un lavoro, la colpevolizzazione di chi è disoccupato, come se si trattasse in ogni caso di un nullafacente. Dipende anche dal fatto che c’è un problema culturale in Italia: l’incapacità di riconoscere il valore del lavoro manuale nella sua vocazione, nella sua ricchezza. Lo dicono anche diversi studi, che mettono a confronto l’andamento del mercato del lavoro in Italia rispetto ad altri paesi europei. Da noi risulta più faticoso trovare chi vede una bella prospettiva lavorativa in un lavoro manuale, spesso considerato come qualcosa di degradante. In altri paesi la professionalizzazione del lavoro manuale è considerata molto importante, e ciò produce un divario culturale che dobbiamo assolutamente affrontare, altrimenti rischiamo di non essere più attrattivi anche rispetto a investimenti esteri.
Tra i tantissimi poveri assoluti, in Italia, lo ha certificato l’Istat di recente, vi sono anche molti lavoratori: gli stipendi e il loro valore d’acquisto si rafforzano detassando il lavoro, o combattendo le tante forme di nero e di irregolarità?
La seconda, sicuramente. Intorno al mondo del lavoro abbiamo forme di evasione fiscale e di nero elevatissime. Questo creato grandi problemi, una forte sottrazione di risorse per il bene comune. Inoltre limita notevolmente le forme di welfare e di tutela di chi lavora: chi lavora in nero, lo abbiamo visto nei mesi di lockdown, non ha alcuna forma di riconoscimento che lo garantisca in caso di difficoltà o emergenza, e questa condizione lo condanna a sopravvivere di sussidi, se va bene. Il lavoro in nero ha ricadute non sono sul bene comune e sulla società, ma sulle vicende individuali: welfare, pensione, garanzie di futuro… Sul momento un lavoro in nero può apparire conveniente anche a chi lo cerca, ma le cose sono molto più complesse: dietro c’è il rischio di un impoverimento sociale e personale, che rappresenta una delle tragedie del mondo del lavoro oggi.
Le forme di sfruttamento diventano sempre
più problematiche, e il problema non è solo lo Stato
che non interviene, ma c’è una questione
di legislazione internazionale
Qualche segnale di riconoscimento e protezione dei diritti dei lavoratori più fragili, per esempio i rider e quelli della logistica, è emerso negli ultimi mesi: ma la politica si occupa abbastanza dell’ampia area dei lavori dequalificati, stagionali, intermittenti, in generale fragili ed esposti alla precarietà?
Penso che ci sia una fatica generale a intervenire su certe aree del mondo del lavoro. Spesso le multinazionali e le grandi aziende che ricorrono a determinati tipi di contratto o di rapporto di lavoro si trovano da tutt’altra parte del pianeta. In generale, le forme di sfruttamento del lavoro diventano oggi sempre più problematiche, e il problema non è solo lo Stato che non interviene, ma c’è una questione di legislazione internazionale. Per converso, è positiva l’attenzione generatasi, negli ultimi mesi, verso lavoratori non tutelati e fragili; tanti racconti e tante narrazioni, non ultime quelle in forma artistica, penso a film molto interessanti, hanno indotto la politica a dare alcune risposte. Qualche segnale differente lo abbiamo visto; però bisogna continuare a non far finta di niente, e anzi le attenzioni e i progressi vanno incanalati dentro una prospettiva legislativa che valorizzi le persone e chieda ai datori di lavoro una differente attenzione, per mettersi alle spalle lo sfruttamento del lavoro.
Responsabilità sociale dell’impresa: come la ridefinirebbe, in questa fase storica, segnata dalla sofferenza di tanti e dalla contemporanea necessità di una ripresa globale?
Il cardine del valore sociale dell’impresa è sicuramente legato al rapporto con un territorio. Nel territorio sia l’imprenditore sia i lavoratori possono esprimere se stessi dentro una relazione che diventa ricchezza per una comunità. Penso alla sempre valida lezione che si può trarre dall’esperienza di Adriano Olivetti nel contesto di Ivrea, con investimenti fatti a tutela e garanzia dei lavoratori, ma anche di un quadro sociale ampio, in cui erano incluse le istanze dalla cultura, della spiritualità, dell’umanità nella sua complessità e nelle sue varie dimensioni. È un approccio che sempre più rischiamo di smarrire quando le aziende perdono di vista il contatto reale con un territorio e si preoccupano esclusivamente del profitto. Però c’è una carta che oggi possiamo mettere sul tavolo, e della cui attivazione tutti siamo responsabili. Chi acquista beni oggi ha la possibilità di distinguere un’azienda che tutela il lavoro e cerca di avere un impatto sociale e ambientale positivo, da una che sfrutta e spreme il territorio, lasciandolo inquinato, più povero, percorso da conflitti. Chi acquista, ha la responsabilità di riferirsi al valore sociale dell’impresa, e di valorizzarlo quando l’azienda lo esprime al meglio, per consolidare un modello di lavoro, sociale e di sviluppo pienamente umani. La Chiesa e le altre agenzie educative, sociali e politiche del territorio hanno davanti a sé un grande compito di responsabilizzazione e di formazione delle coscienze, volto a favorire la capacità di informarsi e discernere da parte dei singoli, cittadini e consumatori. L’enciclica di papa Francesco Laudato Si’ ha parole molto chiare in proposito.
Chi acquista beni ha la possibilità di distinguere un’azienda che cerca di avere un impatto sociale e ambientale positivo, da una che sfrutta e spreme il territorio. Chi acquista, ha la responsabilità di riferirsi al valore sociale dell’impresa
Le comunità cristiane e il lavoro: a quali novità e urgenze occorre riservare particolare attenzione, nel tempo della pandemia e del faticoso post-pandemia?
Le comunità cristiane hanno fatto molto. Soprattutto penso ai tanti interventi del mondo caritativo, le Caritas e altre realtà attente a queste dinamiche, intervenute per contribuire a rendere meno gravi le sofferenze legate al mondo del lavoro. La Chiesa è sempre attenta alle sofferenze umane e sociali: va riconosciuto. D’altra parte, però, penso che abbiamo perso forse un po’ di smalto e di forza nella proposta culturale sul lavoro. Lo avvertiamo nel proliferare di modi di lavorare che non pongono grandi problemi alla coscienza cristiana e invece sono drammaticamente pesanti sulla vita delle persone. I guasti della precarizzazione e dello sfruttamento vanno affrontati da una cultura del lavoro più avvertita, che deve passare anche dentro i luoghi formativi, a cominciare dalla famiglia e dalla scuola, ma certo deve riguardare anche la parrocchia. E più in generale il modo con cui le comunità cristiane normalmente operano nel settore del lavoro. Diocesi e parrocchie hanno propri dipendenti e collaboratori: devono essere le prime a evitare forme di lavoro in nero e a promuovere il lavoro giusto. Questa cultura e queste prassi possono e devono diventare sempre più esperienza della comunità cristiana, altrimenti riduciamo la dottrina sociale della Chiesa a un’etica per gli altri, non già a un valore aggiunto del nostro essere credenti in questo mondo. E, di conseguenza, testimoni di un modello di relazioni che valorizza ciascuna persona, riconoscendola nella sua dignità unica e inviolabile.