Giovanni pranza. E serve
«Prima ero soltanto una persona che aveva bisogno. Oggi so che ci sono anche altri che hanno bisogno di me. E questo mi fa sentire bene». Giovanni, 60 anni, da novembre viene a pranzo nella parrocchia di San Maurizio a Reggio Emilia. Ma anziché arrivare per il pasto, aspettare il suo turno e andarsene come faceva prima, quando andava a magiare insieme a decine di altri ospiti alla mensa della Caritas di via Adua, ora si presenta un’ora prima, dà una mano ad apparecchiare i tavoli e all’ingresso, quando si apre, accoglie gli altri.
L’esempio di Giovanni è stato contagioso. Da qualche tempo, senza che nessuno lo avesse chiesto, altri 20 commensali, prima di andarsene si offrono di rassettare la sala. Lo spirito di collaborazione ha cambiato anche il ruolo dei volontari. «Prima venivamo qui per fare delle cose, ora che sono gli stessi ospiti a occuparsene, veniamo per stare con loro, per farci raccontare le loro giornate, per raccontare a loro le nostre. Insomma, per condividere – racconta Anna –. In poche settimane si sono sovvertiti i ruoli. Ci sono giorni in cui sento di poter dare serenità a Giovanni e ai suoi compagni di tavolo, ma altri in cui sono loro a farmi sentire accolta e a tirarmi su di morale».
Occasione di incontro
A innescare la rivoluzione che a Reggio Emilia sta cambiando il modo di offrire assistenza agli emarginati è stato il Covid. A causa delle norme sanitarie anti-contagio, a marzo dello scorso anno il grande centro polifunzionale della Caritas non ha più potuto accogliere le centinaia di senza tetto e persone gravemente emarginate alle quali dava da mangiare. Da quel momento in poi i pasti, che venivano preparati, sono stati recapitati agli ospiti nelle strutture di accoglienza. Il servizio di asporto è andato avanti per mesi. Ma a un centro punto ci si è resi conto che non ci si poteva accontentare. È stato così che si è tirato fuori dal cassetto un progetto al quale la Caritas diocesana stava lavorando da tempo: le “mense diffuse”.
«Da anni stavamo pensando a come cambiare il servizio di sostegno alimentare ai più fragili – racconta il vicedirettore, Andrea Gollini –. Ci interrogavamo su come poter offrire non solo un pasto a chi ne aveva bisogno, ma qualcosa di più, un’occasione di incontro. Per trovare una risposta ci eravamo guardati attorno, avevamo visto quello che facevano le altre Caritas diocesane. Eravamo anche stati a Firenze, dove stanno facendo una bellissima esperienza, e avevamo seguito i corsi sulla generatività dell’Università Cattolica. Ma non avevamo mai preso una decisione definitiva. Fino a quando il Covid non ci ha costretto a cambiare».
Prima eravamo concentrati sulla prestazione,
ora puntiamo sulla relazione. Stiamo facendo
lo sforzo di vedere sempre di più i volti
Due parrocchie, altre due a maggio
Spinti dalla necessità, i responsabili diocesani hanno deciso di trasformare la storica mensa di via Adua in un centro di cottura. I pasti continuano a essere preparati nella cucina della struttura, ma vengono poi consumati in piccole mense presso le parrocchie. La prima ha aperto i battenti a novembre, accanto alla chiesa di San Maurizio; la seconda a marzo, in un locale della parrocchia di Santo Stefano. Altre due saranno inaugurate nel mese di maggio, e copriranno altre parti del territorio cittadino.
Ognuna delle mense parrocchiali può accogliere circa 20 persone. I volontari, una ventina per ogni struttura, si danno il cambio e non sono mai meno di tre per turno. L’orario è esteso. E gli ospiti possono rimanere negli spazi più del tempo necessario per il pranzo. «Prima eravamo concentrati sulla prestazione, ora puntiamo le nostre energie sulla relazione – spiega Gollini –. In uno dei laboratori che abbiamo seguito, i professori della Cattolica ci hanno mostrato il disegno di un’anfora e ci hanno chiesto di dire quello che vedevamo. C’è chi ha risposto un vaso, chi due volti che si guardano. Ecco, noi stiamo facendo la sforzo di abituarci a vedere sempre di più i volti».
Aggiornato il 02/09/21 alle ore 15:20