Quella frase che mai nessun bambino
«Non farmi male!». Sono le parole che rimbalzano nel cuore di Anna. Minacciose riemergono dal passato di Ginevra, Nina e Layla. Appartengono a molti bambini, vittime di violenza e maltrattamento infantile. Un grido, una preghiera, una supplica: «Non farmi male». È anche il titolo del nuovo podcast, ideato da Terre des Hommes, scritto e condotto da Roberta Lippi. Da anni l’organizzazione Terre des Hommes si impegna a proteggere e aiutare i bambini nel mondo. Dopo la realizzazione di “Respiro”, podcast che racconta storie di orfani di femminicidio, è nato questo “Non farmi male”: cinque storie di infanzia violata, narrate da chi quella violenza l’ha vissuta sulla propria pelle. Cinque voci, oggi adulte, che con grande coraggio hanno deciso di condividere quegli episodi dolorosi della loro infanzia, che hanno cambiato per sempre il corso delle loro vite. Un dramma che si sarebbe potuto evitare, se solo qualcuno avesse fatto attenzione a ciò che stava accadendo.
Il podcast “Non farmi male” nasce proprio per sensibilizzare le persone su questo male sempre più diffuso. Una piaga che assume spesso forme ambigue e poco visibili, lasciando però cicatrici indelebili. Imparare a conoscere e riconoscere le varie forme di maltrattamento infantile è il primo passo per tutelare e proteggere l’infanzia di tanti bambini. Una missione alla quale tutti noi siamo chiamati: non solo i genitori, le maestre e gli educatori, ma la società intera. Perché nessun altro bambino debba più dire: “Non farmi male”.
Ascolta il trailer di “Non farmi male”:
Ascolta l’intervista di Federica a Roberta Lippi:
Ascolta il podcast in sei episodi “Non farmi male”
Roberta Lippi, autrice del podcast “Non farmi male”, ideato da Terre des Hommes per la prevenzione e sensibilizzazione sui diversi tipi di maltrattamento e abuso infantile, come è nato questo progetto?
«È nato in collaborazione con Terre des Hommes, che mi aveva coinvolta precedentemente nel podcast “Respiro”, dedicato agli orfani di femminicidio. Dopo “Respiro” avevamo deciso di proseguire con la realizzazione di un altro podcast insieme, che trattasse tematiche connesse alla violenza infantile sotto diversi punti di vista. In quel momento ci è giunta la testimonianza di una ragazza che, ascoltando gli episodi di “Respiro”, si era resa conto che lei e la madre avrebbero potuto vivere una storia analoga a quelle raccontate, avrebbero potuto fare una fine molto brutta. Così abbiamo pensato di partire da questa testimonianza, sviluppando sei episodi per “Non farmi male”. Il titolo riprende quella frase che ogni bambino che subisce violenza, o assiste a una violenza, direbbe nella sua totale innocenza a un adulto. Abbiamo lavorato alla ricerca delle storie – Terre des Hommes ne conosceva già alcune –. Altre invece sono arrivate spontaneamente».
Maltrattamento e abuso infantile: come si è avvicinata a questo tema?
«Il podcast è un formato molto adatto a raccontare storie vere. E proprio di questo mi occupo quando realizzo podcast: raccontare storie vere. Porto testimonianze e lascio spazio ai protagonisti delle storie, perché raccontino. Credo che, quando si tratta di vicende così drammatiche, il podcast arrivi in modo più delicato, ma allo stesso tempo più potente:
Penso che questo strumento avvicini l’ascoltatore a una comprensione maggiore della tematica e, quando si tratta di temi sociali, avere degli ascoltatori attenti è molto importante».
“Non farmi male” è un viaggio attraverso l’infanzia violata. Quali difficoltà ha incontrato nella realizzazione di un podcast su un tema così delicato?
«Le difficoltà sono state più quelle emotive: in tante circostanze ho ascoltato storie drammatiche. Quando le persone si mettono a disposizione e ti aprono il cuore, raccontandoti la loro storia, hai una responsabilità nei confronti del racconto che ti viene consegnato. Devo riconoscere che ci sono stati degli episodi che per me sono stati tra i più difficili della mia carriera. Sentire una madre che racconta di aver perso un figlio molto piccolo a causa di un gesto che non va fatto, essere consapevoli del dolore che si può provare nel dover raccontare e ancora raccontare quella vicenda e nel doverlo fare per informare gli altri perché non accada più, ecco, queste sono state le difficoltà più grandi. Le mie difficoltà sono legate all’empatia, quelle dei protagonisti sono legate alla fatica tremenda di raccontare, e ripetere ancora, la storia di un dramma, in alcuni casi affrontandolo per la prima volta. I livelli di difficoltà su questo lavoro sono stati tanti e so che ascoltare queste storie non è stato facile per molte persone».
Ogni episodio una storia di violenza, raccontata da chi quella violenza l’ha vissuta in prima persona. Roberta Lippi, come si è preparata all’incontro con queste storie e con i loro protagonisti?
«Come mi preparo sempre: non mi preparo. O meglio, mi preparo all’ascolto. Questa è l’unica cosa che io possa fare. Quando si trattano storie così, quando chiedi alle persone di lasciare una testimonianza, devi arrivare senza giudizio, senza tesi pregresse, senza voler dimostrare niente a nessuno. Lo sforzo massimo è quello di prepararsi un po’ emotivamente, sapere che quello che si andrà ad affrontare nel tempo dell’intervista non sarà facile. Dall’altra parte è importante ricordare a sé stessi di rimanere in ascolto. Il giornalista non è mai protagonista, e deve avere, nel momento in cui decide di impegnarsi in un lavoro documentaristico o nel giornalismo sociale, la volontà di mettersi a disposizione del racconto che vogliono fare gli altri. Quindi non c’è stata grande preparazione, se non nel pensare ad alcune domande. Tante volte lascio parlare le persone e, mentre loro raccontano, io prendo appunti. Il loro parlare mi fa venire in mente nuove domande, nuovi approfondimenti, nuovi scorci che vorrei indagare e cose da chiedere».
Ripercorrere con la memoria il ricordo di un abuso può essere doloroso per chi lo racconta. Come andare in profondità rispettando il dolore di chi lo ha vissuto?
«Andare in profondità non è sempre necessario. Quando si parla di cose così gravi, ci sono diversi livelli di profondità. Tante persone a volte hanno consapevolezza, altre volte no, di ciò che è accaduto. Non sta a una giornalista o a un’autrice andare a scavare nel profondo. Ci sono dei percorsi dell’anima che si fanno in anni e anni di terapia. Può capitare che una mia domanda apra un varco. Tendenzialmente questa cosa accade automaticamente:
Questo accade anche nella vita di tutti i giorni, in tutti i nostri dialoghi. Io semplicemente lascio raccontare una storia, non vado a scavare nel profondo, anche perché queste storie sono talmente drammatiche, che anche al grado zero siamo già a un livello di profondità molto elevato».
Rielaborare una forma di maltrattamento richiede un percorso di analisi. Roberta Lippi, che cosa ci può dire circa lo stigma e i pregiudizi sulla salute mentale oggi?
«Sicuramente l’analisi è consigliata a tutti, anche a chi non ha avuto traumi apparenti, non ha vissuto situazioni di pericolo. Tutti abbiamo bisogno di introspezione, di analisi, di conoscerci meglio, di andare a capire quali sono le nostre ferite. Lo stigma c’è, purtroppo. Grazie al cielo, sempre meno, grazie alle nuove generazioni che stanno lavorando e che portano avanti le loro lotte anche sui social network per cercare di spiegare al mondo che la salute mentale non deve essere stigmatizzata. C’è un diffuso bisogno anche tra i giovani di parlare della loro salute mentale. Lo stigma è più legato alle vecchie generazioni, appartenenti a quel periodo storico che ha visto tante tragedie: le guerre, le violenze che aumentano sempre di più, la povertà… Oggi si usa sempre questa parola che va tanto di moda: “resilienza”. Non è che noi siamo tenuti a essere sempre resilienti, anzi. Molte volte siamo deboli e in questa debolezza abbiamo bisogno di sostegno. Non dobbiamo dimostrare di essere sempre forti. Il sostegno psicologico è fondamentale. Nascondere di averne bisogno e convincere gli altri che non ne hanno bisogno crea un maggiore disagio nella persona che necessita di aiuto. Capire invece di che cosa si tratta, comprendere questo malessere è la strada per superarlo e guarire le ferite. Allora sì che si lavora davvero sulla persona. Le società migliorano se le persone migliorano dentro. Quindi il lavoro sulla salute mentale non ha dei benefici a livello solo individuale, ma ha degli effetti anche sulla sfera collettiva».
Quali misure ritiene necessarie per proteggere e tutelare l’infanzia dei più piccoli oggi?
«Tutte. Tutte quelle possibili.
Se questa attenzione non si riesce a dare in famiglia, devono essere gli adulti che hanno in cura i piccoli (i nonni, il catechismo, le scuole) a guardarli e ad ascoltarli. Ci deve essere un ascolto vero dei ragazzi. Anche le istituzioni, in quanto tali, dovrebbero tutelare i minori, mettendoli nelle condizioni di frequentare scuole dove non ci sono pericoli. Dovrebbero creare degli ambienti e delle città sicure e mettere a supporto delle scuole dei centri psicologici per il benessere dei più piccoli. Quando si vede che c’è una situazione di pericolo, se non si sa come intervenire, sarebbe opportuno consultare delle associazioni che si occupano di queste cose. Con il podcast “Non farmi male” e “Respiro” abbiamo dato spazio non solo a Terre des Hommes, ma a tantissime associazioni che si occupano di minori e che, se interpellate, sono pronte gratuitamente a offrire tutte le risposte del caso. Alle volte basta cercare, guardare e poi le risposte si trovano. Se una persona non le ha, ci sono sempre dei professionisti in quest’ambito, pronti a studiare la situazione e a mettere i ragazzi in sicurezza. Questa però deve essere una responsabilità di tutti».
Come è stato accolto il podcast “Non farmi male” dal pubblico?
Fino a che chiudiamo gli occhi, stiamo bene tutti e nessuno prende in considerazione situazioni che invece meritano attenzione. Devo dire che “Non farmi male” è stato accolto molto bene: è stata compresa la profondità e il valore sociale che ha questo lavoro. In qualità di professionista sono contenta e anche Terre des Hommes è molto soddisfatto, perché il podcast è stato capito. Non è un prodotto che raccoglie storie di cronaca, è un prodotto che è stato pensato. C’è un progetto dietro: è stato realizzato per informare e mettere in luce situazioni che facciamo finta di non vedere».
Lei è autrice anche del podcast “Respiro. Storie di orfani di femminicidio”, premiato all’Italian Podcast Awards. Quali aspetti hanno conquistato la giuria?
«”Respiro” è stato premiato all’interno di una categoria un po’ strana: la categoria branded. Penso che la giuria sia stata colpita dal fatto che per una volta è stato realizzato un lavoro senza lo scopo di promuovere un brand. Infatti Terre des Hommes, che ha commissionato il podcast, non voleva promuovere sé stesso, né l’associazione “Respiro”, ma voleva raccontare delle storie. Desiderava, attraverso queste storie, far capire alle persone il pericolo che si corre di non sapere nulla circa il triste fenomeno degli orfani di femminicidio. Probabilmente la giuria è stata colpita anche dal fatto che la tematica era ed è tuttora abbastanza sconosciuta. Si parla molto di femminicidio. Giustamente dobbiamo parlarne sempre di più, perché l’atrocità che sta accadendo oggi è gravissima. Tuttavia, non ci si ricorda mai che queste donne lasciano dei figli e delle figlie. Di questi figli e figlie ci si dimentica il giorno dopo. Il fatto che qualcuno finalmente avesse messo in luce tutto ciò, probabilmente ha acceso una lampadina anche nella testa di chi ha dovuto esprimere un giudizio sul podcast».
Roberta Lippi, la ringraziamo e proponiamo di seguito un estratto dell’episodio due del podcast “Non farmi male”, ideato da Terre des Hommes per la prevenzione e la sensibilizzazione sui diversi tipi di maltrattamento e abuso infantile…
Roberta Lippi: «… perché quando Terre des Hommes mi ha parlato di questa storia, io non avevo mai sentito neppure lontanamente parlare di shaken baby syndrome. Una cosa così importante, con esisti così drammatici, non può non essere divulgata ovunque, non può essere scoperta per caso. Non può portare agli esiti terribili con cui si sono dovuti confrontare Caterina e suo marito…». Caterina: «A nostro figlio è capitata la cosa peggiore: è entrato subito in coma irreversibile, perché gli era stato fatto questo. Non sappiamo il motivo, non sappiamo assolutamente niente. Sappiamo solo dove era accaduto e che le persone che lo avevano in custodia non sapevano che quello fosse un gesto da non fare. Io la chiamo sempre “la devastazione”, perché mio figlio Mattia, quando è arrivato all’ospedale pediatrico Anna Mejer di Firenze, è arrivato in una condizione molto molto critica. Era già un vegetale. Aveva avuto delle emorragie retiniche agli occhi e al cervello. La concomitanza di queste due emorragie è solo “S.b.s”, ovvero shaken baby syndrome».