Il virus insidia anche la psiche
L’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei da anni ha costituito un “Tavolo sulla salute mentale”, che permette l’incontro di diversi specialisti, provenienti da realtà presenti in tutto il territorio nazionale, il confronto tra diversi settori, approfondimenti di carattere medico-specialistico e riflessioni di carattere pastorale.
La pandemia, con le ripetute chiusure obbligatorie generalizzate (il cosiddetto lockdown) e il contingentamento dei rapporti terapeutici, ha generato una serie di problemi, ha proposto nuove tematiche, ha obbligato alla ricerca di risorse operative nuove e alternative. Tutto questo ha trovato un primo momento di riflessione e sintesi in un’intera giornata di convegno (Pandemia Covid-19. Effetti sul benessere mentale e relazionale; gli atti sono in via di pubblicazione) tra specialisti del settore e diversi ambiti pastorali, per cominciare a costruire una risposta coerente alla domanda su cosa accade accadrà, dopo la pandemia, alla persona con disturbi psichiatrici, alla sua famiglia, agli operatori, alle strutture dedicate.
Isolamento, ma non regresso
La pandemia ha generato isolamento, sia per gli obblighi derivanti dalle regole di limitazione degli spostamenti in generale, sia per le specifiche precauzioni di accesso alle strutture sanitarie, socio-sanitarie e socio-assistenziali. Gli operatori della salute mentale e della psichiatria hanno riscontrato tre fenomeni che si possono riassumere:
- in una “paura” del contatto diretto;
- nell’aumento delle tensioni derivanti dall’isolamento;
- nella crescita a livello adolescenziale dei fenomeni di autolesionismo (quando non addirittura di tentato suicidio), provocati dalla solitudine e da una maggiore interdipendenza costrittiva in ambienti ristretti.
Nell’insieme, tuttavia, non si è assistito ad un regresso delle attenzioni al mondo della salute mentale e del disagio psichico.
D’altro canto, non si può raggruppare in un’unica definizione il vasto mondo dei problemi di salute mentale. Possono essere problemi relazionali, e hanno sofferto maggiormente il lockdown; possono essere problemi comportamentali individuali, rimasti pressoché gli stessi al variare degli “ambienti” di residenza e di socializzazione; possono essere problemi specifici. Ad esempio, le persone con disturbi dello spettro autistico hanno patito in modo significativo il rallentamento delle attività di sostegno sia verso la famiglia che negli ambienti scolastici; al limite opposto, una marcata agorafobia o una tendenza alla asocialità devono essere compensate, dato che il lockdown ha creato nel domicilio un “ambiente confortevole”, oltremodo isolato.
Riassumendo, le diverse situazioni individuali hanno risentito di effetti assolutamente non univoci, che comunque – dal punto di vista dei percorsi – possono essere riassunti in una “presa in carico” trasformata, ma non trascurata. Caso limite esemplare sono i colloqui del paziente che – per la necessaria riservatezza – non potendo essere svolti in presenza, si sono svolti anche dall’automobile parcheggiata sotto casa, in orari “compatibili” con la presenza obbligata di tutti i familiari sotto lo stesso tetto.
Nel vivere “compressi” nei propri spazi vitali – in chiave familiare – sono emersi da una parte tensioni e limiti caratteriali (che prima venivano stemperati e “diluiti” nella molteplicità dei rapporti di lavoro, scolastici, parrocchiali e sociali), e d’altra parte si è reso necessario, anche sotto il profilo pastorale, un nuovo patto tra le generazioni. Anche nel lockdown le famiglie, in grandissima maggioranza, sono state cellula utile e funzionante.
L’aumento della povertà vitale
Piuttosto, si è osservato che la pandemia, incrementando la povertà economica, incide negativamente sulla “povertà vitale”, ossia agisce sull’insieme degli aspetti umani, relazionali e affettivi del soggetto. In altri termini, la “carestia” che segue alla “epidemia” provoca più danni della malattia in quanto tale, anche sotto il profilo della salute mentale. I dati che Caritas costantemente rileva sulla povertà, vanno a confermare che l’effetto immediato del lockdown è l’aumento della povertà complessiva.
Il lockdown ha “curato” almeno in parte alcune dipendenze (ad esempio il gioco d’azzardo compulsivo ha subito una battuta d’arresto) e ne ha accentuate altre (i videogiochi on line hanno conosciuto
un forte incremento di ore giocate)
In positivo, è stato possibile rilevare la grande capacità di adattamento delle strutture, degli operatori e dei professionisti, posti di fronte al lockdown. Nuove tecnologie di comunicazione e la maggiore utilizzazione di quanto già disponibile hanno favorito colloqui, sia con la singola persona, sia con i familiari; ma questa capacità di adattamento ha dovuto fare i conti con il gap tecnologico esistente e variamente distribuito in Italia.
Il lockdown ha “curato” almeno in parte alcune dipendenze (ad esempio le sale con le slot-machine sono rimaste chiuse e il gioco d’azzardo compulsivo ha subito una battuta d’arresto) e ne ha accentuate altre: i videogiochi on line utilizzati già compulsivamente hanno avuto, nella persona – non solo ragazzo, ma anche adulto – “dipendente”, un forte incremento di ore giocate.
Una battuta d’arresto l’hanno subita, purtroppo, i percorsi di socializzazione e di rimozione dello stigma sulla salute mentale. Gli operatori che lavoravano per reinserire alcune persone nel contesto sociale di appartenenza, come percorso conclusivo o proprio al termine di un cammino riabilitativo, si sono trovati nella condizione obbligata di sospendere il percorso di reinserimento, con un duplice deficit: per chi aveva iniziato il percorso, per la comunità che è rimasta in sospeso. Acquistare fiducia e speranza richiederà ora un passo in più, per superare il timore di incontrare chi è rimasto, per più di un anno, “lontano”.
Autolesionismo e tendenze suicidarie
Rispetto alle ipotesi di lavoro elaborate nel periodo iniziale della pandemia, il distanziamento e l’isolamento non hanno comportato un aumento nella popolazione adulta delle tendenze suicidarie, quale esito ultimo della pandemia stessa. Non si ha un rapporto diretto di causa-effetto, ma può accadere che la sofferenza incida su condizioni già critiche. Il suicidio infatti non è una “scelta per la morte”, ma viene concepito come unica via di uscita da situazioni ed emozioni insopportabili e intollerabili; è visto come la migliore soluzione per eliminare il dolore mentale, che è sempre multifattoriale.
È rilevante invece la crescita dei numeri dei disturbi alimentari (anoressia e bulimia), dell’autolesionismo e delle tendenze suicidarie nella popolazione più giovane, che più ha patito la mancanza di relazioni tra pari nel periodo del passaggio dall’infanzia alla maturità. Un fenomeno, questo, che interpella la comunità cristiana, che esercita un’importante funzione di “comunità sanante” delle relazioni. La catechesi, la pastorale familiare, quella giovanile, gli interventi nei percorsi scolastici ed educativi sono oltremodo importanti per andare incontro a questo grido di aiuto delle fasce giovani della popolazione. Soprattutto, come già rilevavano analisi precedenti, nell’offrire chiavi di senso per la vita.
È rilevante l’aumento dei disturbi alimentari (anoressia e bulimia), dell’autolesionismo e delle tendenze suicidarie nella popolazione più giovane: un fenomeno che interpella la comunità cristiana, e il suo desiderio di essere “comunità sanante” delle relazioni
Una parola va dedicata agli operatori e professionisti sanitari: tanto chi opera nelle strutture, quanto chi nel territorio, nella dimensione locale. Non sono “eroi”, ma professionisti che ogni giorno cercano il bene, curano e si prendono cura di chi a loro si rivolge. La pandemia, paradossalmente, incide anche sulla loro salute mentale. È importante non dimenticarli nella loro quotidianità.
Dimensione religiosa ed elaborazione del lutto
La pandemia e le misure di ordine pubblico e di carattere sanitario che ne sono derivate hanno prodotto un fenomeno che incide profondamente sulla salute mentale di molti: la mancata elaborazione del lutto. Il fatto ha, evidentemente, una forte differenziazione regionale, ma tocca alcuni degli aspetti più profondi dell’umano e dello spirituale. Salutare i morti, accomiatarsi da loro, non è secondario per la costruzione della sanità individuale. Fa parte del processo di maturazione della propria storia, e di quella familiare. Accompagnare chi ha “mancato” questo passaggio ha un carattere religioso (l’affidare a Dio i propri cari, nella speranza della Risurrezione in Cristo) e insieme una valenza antropologica fondamentale, con importanti risvolti sulla costruzione serena del proprio “io”. È una domanda che avrà lunghi tempi di maturazione.
Così, la stessa dimensione religiosa, che appartiene originariamente a ciascuno, anche nella malattia mentale è stata interpellata, con esiti in parte legati alla condizione esistente, in parte legati a come la comunità saprà “rientrare” non solo tra le mura delle chiese riaperte, ma nel sentirsi comunità ecclesiale. Anche su questo fronte, se non si è “comunità sanante” si manca qualcosa di specifico nel cammino con le persone che vivono il disagio mentale.
* l’autore è direttore dell’Ufficio nazionale Cei per la pastorale della salute
Aggiornato il 11/08/21 alle ore 13:41