Gli “altri noi”, trent’anni dopo
Sono passati 30 anni dall’8 agosto 1991, giorno dell’approdo della nave Vlora, con un carico umano di circa 20 mila persone, nel porto di Bari. Non fu la data d’inizio, ma certo l’episodio più noto della prima ondata migratoria degli albanesi verso l’Italia. Un evento che destò sorpresa, commozione e profondi dibattiti nel nostro paese, fornendo immagini destinate a imprimersi nella memoria collettiva di due popoli.
Prima il crollo del Muro di Berlino, poi le crepe del regime totalitario e successivamente – appunto – gli esodi biblici all’inizio degli anni Novanta. La storia recente dell’immigrazione albanese, con la sua forza emblematica e i suoi sviluppi, potrebbe essere una bussola per orientarsi nei mari agitati dell’attualità e un glossario per capire la realtà migratoria di oggi, che vede nei flussi migratori una delle sfide epocali per l’Italia e l’Europa intera. Si possono trarre tante lezioni dal fenomeno migratorio albanese; ne sottolineiamo tre in particolare.
Conoscere per capire
Bisogna ricordare che l’Albania, paese vicino e lontano nello stesso tempo, è stata riscoperta in modo drammatico grazie proprio all’immigrazione all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso. Prima della caduta della Cortina di Ferro, ingabbiata nella sua autarchia dai confini inviolabili, l’Albania era un enigma per l’opinione pubblica italiana: sopravviveva qualche ricordo sbiadito di guerra del nonno soldato e qualche curioso ascoltatore di Radio Tirana, che trasmetteva su onde corte con un linguaggio quasi alieno. Per il resto, bisogna riconoscere che la casella “Albania” nell’immaginario collettivo era vuota e il paese al di là dell’Adriatico era completamente sconosciuto e circondato da un alone di mistero.
L’arrivo degli albanesi in Italia, che scappavano dal regime totalitario più feroce d’Europa, che aveva bandito persino le religioni, è stato dunque anzitutto una lezione di geografia: ha ricordato a tutti che la penisola italica è una piattaforma naturale nel Mediterraneo, e che non può sottrarsi al suo destino. Anzi, deve trarne vantaggio per essere un punto di riferimento nel Mare nostrum.
Per chi conosce la storia, in ogni caso, la migrazione degli albanesi è apparsa come la ripresa, dopo una lunga pausa, di un fenomeno di mobilità costante nella storia dei popoli dell’Adriatico. Tra l’altro, è superfluo ricordare che le migrazioni hanno costituito da sempre una condizione normale dell’umanità. Nel nostro caso, fanno da testimoni eccellenti le comunità italo-albanesi (arbëresh) – distribuite in Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia – che si stabilirono nel centro e sud Italia tra il XV e il XVIII secolo, dopo la morte dell’eroe nazionale albanese Giorgio Castriota Scanderbeg e la conseguente occupazione da parte dell’Impero ottomano. Tuttavia, la presenza albanese nella penisola era ben presente anche prima di quei secoli.
Nel 1991 e poi nel 1997, a causa dell’implosione dello Stato e dei tumulti diffusi, la fuga degli albanesi ha fatto capire a tutti che uomini e donne possono arrivare ad abbandonare la loro terra per motivi di sopravvivenza, e nessuno li può fermare. Ieri come oggi, in generale, guerre, persecuzioni, conflitti politici interni, dissesti finanziari, carestie, disastri naturali e ambientali, società corrotte o dittatoriali costituiscono motivi sufficienti, anche se dolorosi, per abbandonare il proprio Paese di origine.
Le migrazioni costituiscono da sempre una condizione normale dell’umanità. Le comunità arbëresh si stabilirono nel centro e sud Italia tra XV e XVIII secolo
Invito implicito a distinguere. E ad accogliere
I motivi di soggiorno degli albanesi in Italia oggi sono svariati. Dipende dai casi e dal periodo in cui hanno raggiunto l’Italia. C’è chi ha avuto il permesso di soggiorno per motivi politici, umanitari, familiari, economici, di studio, di salute, di matrimonio, dopo una regolarizzazione, oppure dopo un visto regolare. Oggi la loro situazione suona come un invito implicito a distinguere e comprendere le condizioni e i bisogni dei migranti. Bisogna farlo nell’ambito di una strategia europea e mantenendo sempre una predisposizione all’accoglienza.
Di fronte agli odierni arrivi dall’Africa, ad esempio, oppure dalla Siria, la lezione è parzialmente disattesa, dal momento che sui migranti – che sfidano la morte per attraversare il mare – si fanno ancora domande insensate del tipo: «Perché vengono qui?». Invece Papa Francesco, l’8 luglio 2013, nella sua visita a Lampedusa, sintetizzava efficacemente: «Quei nostri fratelli e sorelle cercavano di uscire da situazioni difficili per trovare un po’ di serenità e di pace; cercavano un posto migliore per sé e per le loro famiglie, ma hanno trovato la morte. Quante volte coloro che cercano questo non trovano comprensione, non trovano accoglienza, non trovano solidarietà! E le loro voci salgono fino a Dio!».
Trovarono un paese impreparato
Gli esodi albanesi del 1991 verso i porti pugliesi, al netto dell’accoglienza spontanea e commovente delle popolazioni locali, trovarono nell’Italia un paese impreparato dal punto di vista organizzativo e culturale. Infatti l’opinione pubblica non aveva ancora realizzato che l’Italia si fosse trasformata, da paese di emigrazione a paese di immigrazione. I due fenomeni, storicamente, hanno peraltro sempre convissuto, ma la migrazione albanese ha sicuramente aiutato l’opinione pubblica e le istituzioni italiane a prendere coscienza del fatto che ormai l’Italia doveva comportarsi definitivamente come un paese di destinazione dei flussi migratori.
Il fenomeno migratorio viene visto spesso con occhiali sensazionalistici e ideologici, che non permettono di guardare i dati veri e oggettivi, i quali dimostrano chiaramente che anche oggi, a livello globale, non sono in atto invasioni, tanto meno in Europa e in Italia. La crisi albanese del 1997, invece, conteneva un’altra lezione: i flussi migratori stavano diventando costanti e la presenza degli immigrati si avviava ad assumere caratteristiche strutturali. Quindi l’approccio emergenziale, di cui la politica italiana soffre tuttora nei confronti del fenomeno migratorio, già a quel tempo non aveva alibi, considerati gli esodi di qualche anno prima e la fallimentare gestione degli stessi, come appunto nel caso del porto e poi dello stadio di Bari.
L’invasione (inesistente) che non finisce mai
Per capire come impreparata fosse anche l’opinione pubblica, non farebbe male a nessuno fare un tuffo nelle acque burrascose dei media di 30 anni fa. Essi giravano intorno alle stesse parole d’ordine di oggi: invasione, disordine, caos, prostituzione, criminalità, rischio epidemie, danni al turismo, blocco navale… Negli anni Novanta, nell’infosfera imperversavano parecchi pregiudizi. E un’immagine molto negativa degli albanesi (Ardian Vehbiu e Rando Devole, La scoperta dell’Albania, Edizioni Paoline, Milano 1996).
Alcuni anni dopo il primo grande esodo, precisamente nel marzo 1997, in occasione della nuova ondata di traversate succeduta alla crisi delle finanziarie piramidali e al rischio di guerra civile nel paese delle Aquile, in Italia nei media si registrò un’escalation di paura. Basta dare un’occhiata ai titoli dei giornali dell’epoca: “Bari, l’incubo dell’invasione” (Corriere della Sera, 2 marzo 1997), “Il crollo dell’Albania, I ribelli a Tirana, fuga di massa verso l’Italia. Navi, aerei, elicotteri, gli albanesi invadono la Puglia” (La Repubblica, 14 marzo 1997), “Sbarcano i dannati d’Albania. Ricomincia la fuga in Italia, allarme sulla costa adriatica” (Il Giorno, 14 marzo 1997), “Una guerra finta e l’Albania trasloca in Italia” (Il Giornale, 17 marzo 1997), “Tensione in Puglia: tutti protestano. I fuggiaschi vogliono case, la gente ha paura” (La Stampa, 17 marzo 1997), “A Brindisi le strade sono invase di clandestini arrabbiati e sfuggiti ad ogni controllo” (Il Tempo, 17 marzo 1997); “Puglia, l’invasione continua” (Il Messaggero, 17 marzo 1997). E così, nei giorni successivi, tra paure, allarmismi e incomprensioni, si cercava di descrivere il nuovo esodo albanese.
Anche oggi si registrano atteggiamenti isterici.
Eppure il caso albanese ha dimostrato che la paura
e l’isteria non aiutano ad affrontare sfide epocali
La paura non aiuta
Esistono molte assonanze con la situazione attuale. Anche oggi, come allora, si registrano nei media e nella politica atteggiamenti isterici, che amplificano la paura e l’angoscia nei confronti dei migranti. Eppure il caso albanese ha ampiamente dimostrato che la paura non aiuta ad affrontare sfide epocali. È umanamente comprensibile, ma va gestita con buon senso e realismo, senza cadere nell’angoscia e nella sindrome da invasione, e di conseguenza nella tentazione compulsiva di costruire muri e fili spinati.
La retorica dell’invasione non solo non aiuta a trovare soluzioni, ma addirittura danneggia il paese chiamato ad accogliere, in quanto offusca la ragione e impedisce di fare scelte ponderate. Sono sufficienti i dati che illustrano la presenza degli albanesi negli anni, in Italia (quasi 35 mila persone presenti nel 1995, salite a 142 mila nel 2000, poi al record di 502 mila nel 2013, picco dal quale è cominciata la fase discensiva, fino ai quasi 417 mila del 2019) per capire che gli approcci demagogici non funzionano e non portano lontano. In particolare, non aiutano a gestire e governare in modo efficace e lungimirante un fenomeno migratorio che oggi è palesemente globale, strutturale, di lungo periodo. Servono norme che favoriscano flussi d’ingresso e permanenza regolare dei cittadini stranieri, quindi un efficace processo di integrazione, contrastando in tal modo i fenomeni criminali che gestiscono i flussi, il lavoro nero, irregolare e lo sfruttamento. Si ribadisce, di conseguenza, la necessità di corridoi umanitari di ingresso per i rifugiati e in generale la costruzione di politiche di asilo e di accoglienza funzionali ed equilibrate, in un’ottica europea e persino mondiale.
Ormai pienamente integrate
In tema di immigrazione siamo abituati a nutrirci di immagini indefinite. A cominciare dalle navi albanesi, i media ci hanno offerto costantemente immagini di folle e di gruppi di uomini su gommoni e imbarcazioni: stretti, ammucchiati, ammassati, come piccole formiche, entità collettiva amorfa, senza identità, senza volto. Si tratta di immagini che hanno qualcosa di primordiale, che vengono trasmesse spesso in maniera indistinta, generando di conseguenza impressione e paura. La migrazione viene di fatto presentata con sembianze sconosciute e minacciose.
Nelle foto delle navi gremite, antesignana la Vlora di 30 anni fa, le persone sembrano tanti piccoli pixel. Vedere le loro facce, ingrandendo le immagini, è un tentativo inutile. Diventa impossibile a chi guarda, in queste rappresentazioni, scorgere un proprio simile. La stessa cosa si ripete oggi, in tante occasioni di sbarchi, quando la telecamera scivola velocemente su volti sofferenti, sguardi impauriti, corpi stremati avvolti in telini isotermici dorati. Per non parlare dei corpi galleggianti rivolti all’ingiù. Senza un volto, senza un nome, senza una storia. Avvolti dall’anonimato e dall’indifferenza. Risulta impossibile riconoscersi nell’Altro, che diventa più altro.
Oggi i tentativi di ripescare testimonianze dalle maree umane di 30 anni fa non vanno visti solo come un’operazione culturale di carattere commemorativo. Servono per ricordare, ma sono anche un modo per dare volto, voce e storia, in definitiva dignità, alle persone che attraversarono l’Adriatico con tante speranze e sogni per una vita migliore. Tra gli albanesi, chi racconta l’arrivo sulle coste pugliesi non dimentica mai di parlare anche della vita nel proprio paese, della partenza e del viaggio.
Queste persone, seppur tra mille difficoltà e sacrifici, oggi si sono pienamente integrate nella società italiana. Molti di loro hanno acquisito anche la cittadinanza italiana. Le loro storie e i loro esempi ci ricordano che bisogna sempre vedere e cercare la persona, anche quando sembra invisibile e smarrita nella moltitudine; che bisogna sempre conoscere e comprendere le storie di ciascuno, anche quando sembrano incomprensibili e perse nella lontananza. È là che si incrociano i vissuti e le esperienze umane.
Immagini primordiali, trasmesse in maniera indistinta, generando impressione e paura. La migrazione viene presentata con sembianze minacciose
Migranti, ovvero persone
Oggi gli albanesi costituiscono indubbiamente una delle collettività storiche più numerose in Italia. Il sostanziale equilibrio tra i generi, la presenza diffusa nel territorio con relativa concentrazione nel Nord, la partecipazione estesa al mercato del lavoro, con un forte coinvolgimento nel settore industriale, la vocazione imprenditoriale in crescita, così come la conoscenza della lingua italiana e la stabilizzazione prolungata, insieme ad altri aspetti, rendono gli albanesi una delle collettività più integrate nel tessuto socio-economico italiano.
Il percorso della migrazione albanese dimostra, inoltre, che essa è un ponte di collegamento, uno spazio di incontro, un fattore di sviluppo, una grande risorsa per i due paesi (le rimesse degli emigrati in Italia fruttano ormai stabilmente, da almeno un quindicennio, tra i 120 e i 140 milioni di euro all’anno al Paese delle Aquile). Proprio per questo, c’è bisogno di un riconoscimento sincero e reale del suo ruolo, al di là della retorica dei bei discorsi. Serve un mondo più inclusivo e più giusto, che riconosca il contributo dei migranti come persone, al di là dell’utilitarismo economico. E ciò riguarda sia Italia che Albania.
Parlare della storia dell’immigrazione albanese e non menzionare confini, muri, paure, è comunque impossibile. Vale lo stesso per concetti come libertà, ponti, incontri. E allora vengono naturalmente in mente le parole di Papa Francesco, espresse a giugno, nel Messaggio in occasione della Giornata mondiale del migrante e del rifugiato 2021: «Il futuro delle nostre società è un futuro “a colori”, arricchito dalla diversità e dalle relazioni interculturali. Per questo dobbiamo imparare oggi a vivere insieme, in armonia e pace. […] In questa prospettiva, le migrazioni contemporanee ci offrono l’opportunità di superare le nostre paure per lasciarci arricchire dalla diversità del dono di ciascuno. Allora, se lo vogliamo, possiamo trasformare le frontiere in luoghi privilegiati di incontro, dove può fiorire il miracolo di un noi sempre più grande».