Tunisia inquieta, si torna a emigrare
«Sarei felice se avessi la ricchezza di un libico, il coraggio di un algerino, la forza di un marocchino, e l’intelligenza di un tunisino». Simpatico adagio del Maghreb, citazione alla quale ogni paese conferisce il significato che preferisce, con innocuo campanilismo. Stereotipi: ma l’idea che i tunisini siano intelligenti e pratici è senz’altro diffusa.
È di certo ingiusto che della Tunisia si parli solo per naufragi o crisi politico-istituzionali, come quella del luglio scorso: è un paese di sfumature, afflitto da problemi antichi e complessi, ma pieno di opportunità. E forse di segnali incoraggianti per il suo popolo.
All’origine della Primavera Araba, che a partire dal 2010 avrebbe prima risvegliato e poi sconvolto Nord Africa e Medio Oriente, la Tunisia resta l’unica storia di successo, altrove neanche immaginabile, di quel complesso fenomeno. Liberatasi dal più che ventennale regime di Ben Ali, nel 2011 la Tunisia ha intrapreso l’impervia strada della democrazia: mentre la Libia è sprofondata in una guerra civile e in un caos senza via d’uscita, l’Egitto ha registrato una netta sterzata autoritaria dopo la parentesi democratica, la Siria è entrata in una delle guerre più atroci del secolo, il Paese dei gelsomini è riuscito a mantenere una pur precaria coesione sociale, attraverso forme e pratiche liberali e democratiche. La Tunisia è così classificata ‘’libera’’ per diritti e libertà civili (71 punti su 110 nella classifica di Freedom House, contro 37 del Marocco, 32 dell’Algeria, 18 dell’Egitto e 9 della Libia), benché gravata da una marcata instabilità.
Seconda ondata letale
La pandemia da Covid ha naturalmente contribuito ad acuire le tensioni socio-economiche presenti nel paese. Quasi risparmiato dalla prima ondata del 2020, il sistema sanitario tunisino è collassato sotto la diffusione della variante Delta nel 2021, responsabile della seconda e terza ondata. Con 705.474 casi accertati e 24.794 decessi, notoriamente sottostimati, al 27 settembre (su una popolazione di quasi 12 milioni di abitanti), la Tunisia è il paese più colpito d’Africa e fra i più colpiti al mondo, nonostante la netta accelerazione della campagna vaccinale in agosto, arrivata a coprire il 28,4% della popolazione (mentre a inizio luglio si era solo al 5,3%). In estate, arrivata a toccare il picco di 461 casi ogni 100 mila abitanti, la crisi si è fatta catastrofica, degenerando anche in situazioni inumane e alimentando pesanti accuse di malagestione per misure inefficaci e risorse insufficienti. Gli ospedali sono stati a più riprese in saturazione, con posti letto insufficienti (raramente sotto il 90%), stanze sovraffollate e poco ossigeno: molti sono stati coloro che hanno preferito non recarvisi, e morire a casa; non rari anche i casi di mercato nero dell’ossigeno, venduto al triplo del suo prezzo.
L’esasperante situazione sanitaria, unitamente a restrizioni e al degrado sociale rapidissimo (il ceto medio ha perso il 30% del potere di acquisto in due anni), ha provocato tensioni sempre più alte. La gestione della crisi sanitaria è stata l’ultimo e più potente affluente dell’esplosiva insoddisfazione popolare, che da anni montava, nel malessere economico crescente.
Il vero detonatore della Primavera Araba, in altre parole, non è mai stato disinnescato: un sistema sociale-produttivo che non riesce a riformarsi e a risolvere uno stato di crisi economica permanente, di inflazione inarrestabile, di disoccupazione dilagante, di deficit fiscale, di fuga dei cervelli. Il tutto, in un contesto di deterioramento della qualità di tutti i servizi, soprattutto educativi e sanitari: la crisi da Covid 19 ha aggravato una situazione già seria, con tutti gli indicatori sociali in deterioramento da anni.
Il rallentamento dell’economia mondiale nel 2007-2008 interruppe l’abituale flusso d’entrate, affidabile fattore di stabilità del regime di Ben Ali, carburante delle sue clientele e origine della narcotica quiete sociale che il Rais tuttavia garantiva: fu il più potente acceleratore del crollo del regime nel 2010-2011. La crisi dell’esportazione dei fosfati e la brusca interruzione del turismo causa terrorismo (due pilastri del Pil nazionale) a metà degli anni ’10 fecero il resto, fino all’avvento dell’odierna pandemia, alla nuova recessione mondiale e al blocco dell’appena rinato turismo. Risultato: una contrazione del Pil di almeno l’8,8% nel 2020 e un debito pubblico oltre il 100% a metà 2021.
“Rinascita” razzista
La questione migratoria, in Tunisia, è da sempre intensamente politica, caratterizzata dai contraccolpi di due interessi confliggenti e irriconciliabili. Storico paese di grande emigrazione, con 1 cittadino su 10 all’estero (11%), la Tunisia ha oltre 1,2 milioni di persone in Europa (oltre 700 mila in Francia, quasi 200 mila in Italia) e più di 200 mila in Medio Oriente. Nel frattempo, durante i regimi di Bourguiba e Ben Ali, il paese è rimasto fortemente chiuso all’immigrazione, con un approccio securitario orientato al controllo – bandiera del regime – e a un’intenzionale clima di sospetto.
Limitati furono i cambiamenti negli anni Novanta, quando il paese divenne anche un polo d’eccellenza educativo-universitaria relativamente economico. Il decennale trasferimento della Banca dello Sviluppo Africana da Abidjan a Tunisi aprì limitati percorsi migratori con la Costa d’Avorio, ancora oggi provenienza di gran parte dei migranti (40,5% del totale nel 2021).
Il cambiamento vero, anche su questo fronte, giunse con la Rivoluzione nel 2011, quando 345 mila persone attraversarono la frontiera con la Libia in fuga dalla guerra civile, flusso che si intensificò nei mesi successivi. A questo si aggiunse l’apertura di un più ampio dibattito democratico, ma anche maggiori pressioni europee tese al contenimento.
Da allora, il doppio volto della questione migratoria non è mai mutato: da un lato, forte resta l’interesse a proteggere i diritti degli emigranti tunisini, uscita di sicurezza dal claustrofobico contesto socio-economico, impossibilitato ad assorbire la manodopera giovanile e affamato di rimesse; dall’altro, perdurante è la tendenza a limitare i diritti degli immigrati, per evitare i malesseri fra le fasce più povere delle popolazione.
È diffuso l’equivoco che i paesi mediterranei seguano passivamente gli interessi europei nelle loro politiche repressive anti-migratorie, come anche la convinzione che a una maggiore incidenza democratica corrisponda più libertà migratoria. In realtà, il quadro è più complesso, e risente soprattutto di equilibri interni. È noto che i regimi democratici si sentono vincolati alla volontà popolare, la quale, in tempi di crisi occupazionale acuta, si mostra spesso incline a diffidare degli stranieri e della presunta concorrenza a basso costo che questi porterebbero. Alla rinascita democratica, in Tunisia, è in altre parole corrisposta anche l’inclinazione a esprimere un razzismo, represso e silente, che storicamente era ‘’delegato’’ al regime. Non sono state e non sono oggi pertanto rari, in Tunisia, derive xenofobe, atti di quotidiano razzismo e violenze.
In difficoltà soprattutto le donne
Il Covid 19 ha dunque impattato sulla crisi dei migranti africani in Tunisia, ormai cronica, così come sulle ambizioni migratorie dei tunisini, che da tempo si imbarcano insieme agli stranieri, alla volta delle coste europee, e italiane in particolare. La crisi sociale dal marzo 2020 si è fatta sentire nei suoi risvolti occupazionali: il turismo è scomparso, l’economia mondiale ha rallentato, ogni attività produttiva o servizio sono cessati. Migliaia sono stati i tunisini e i migranti, fino ad allora occupati formalmente o informalmente (fra il 30% e il 40% dell’economia è sommersa), che hanno perso all’istante ogni reddito.
I migranti stranieri, stimati in 75 mila nel paese, sono stati colpiti sia dalla perdita del reddito, sia dalla perdita del sostentamento della propria famiglia. Gli effetti socio-economici della seconda ondata, nel 2021, sono stati persino peggiori di quelli dell’ondata 2020, con un tasso di occupazione fra i migranti passato dal 64% all’11% e un totale di 9 migranti su 10 disoccupati, ormai privi dello stock di risparmio bruciato durante la prima ondata.
Gli effetti indiretti hanno colpito soprattutto le donne, che hanno dovuto per esempio subire un incremento della violenza domestica e dello sfruttamento sessuale.
Il mare come soluzione
Ma in generale la crisi da Covid ha trasformato ‘’chimicamente’’ la migrazione: quello che per migliaia di migranti africani era un paese di destinazione, si è trasformato in un paese di transito verso l’Europa. «Io ero qui per lavorare e poi tornare in Costa d’Avorio, ma ora tutto è cambiato. Non volevo andare in Italia, ma dovrò: ho finito tutti i miei soldi e da casa non possono più spedirmene. Anche dopo il confinamento, non tutto è ripreso come prima: il ristorante in cui facevo le pulizie non ha riaperto, e molti altri non hanno riaperto, non ci sono i turisti»: Lucien, guineano di 31 anni, illustra con la sua storia un dramma diffuso già dopo la prima ondata, neanche la peggiore.
Impossibilitati a uscire legalmente dal paese, ma anche a lavorare, costretti a restare in casa e spesso in oggettiva difficoltà a curarsi per questioni sia economiche che burocratiche, molti migranti hanno vissuto anche fame e abbandono, con la fuga per mare come unica soluzione: «Non ho mai saputo cosa fosse la fame, in vita mia, neanche al villaggio. Lo so adesso: durante il confinamento a Tunisi l’ho vissuta. Parto appena posso. Davanti a me la morte è una possibilità, ma alle mie spalle è una certezza», conferma Fabian, 23 anni, ex muratore ivoriano licenziato all’inizio della pandemia, che Caritas Tunisia ha assistito durante il lockdown.
Quando un giovane tunisino ti dice che
Khaled, disoccupato 24enne di Sfax
non vuole partire, non credergli: ti mente!
È un’ossessione, sanno tutti che non c’è scelta
«Ma certo! Ma cosa mi chiedi? Tutti vogliamo partire! E quando un giovane tunisino ti dice che non vuole partire, non credergli, ti mente!», ammicca Khaled, disoccupato di 24 anni, originario di Sfax. Forse esagera, ma segnala un fenomeno diffuso: «Non concludo una sola giornata senza aver sentito qualcuno che parla di partire: al caffè, al calcio, in famiglia, è un’ossessione, sanno tutti che non c’è scelta, vogliamo tutti andare via di qui, è finita! Metà dei miei amici hanno provato o sono già partiti. Io ho provato due volte. L’ultima era una finta partenza: il bastardo che ha preso i soldi ci ha messo in mare, ma dopo 10 minuti è arrivata la polizia, sappiamo che ci ha segnalato lui stesso. Ci ha sfruttati e anche umiliati!».
Prigione da cui scappare
Allo stesso modo, per molti tunisini il paese si è trasformato in una sorta di prigione dalla quale scappare. In particolare la disoccupazione, giunta ormai al 18%, e al 36% fra i giovani (41% secondo alcuni), ha innescato un’autentica bomba sociale, considerato che l’età media nel paese è 32 anni e che il 25,3% della popolazione è sotto i 14 e il 38% sotto i 24.
La molla silenziosamente carica di questa nuova vulnerabilità ha determinato che all’anomala pausa di sbarchi, registrata in Italia a metà 2020, seguisse un’impennata di arrivi dalla Tunisia, che ha così superato la Libia per numero di partenze verso il nostro paese (Mixed Migration Centre, The impact of Covid-19 on refugees and migrants on the move in North and West Africa, disponibile su www.mixedmigration.org alle pagine 5 e 7). Gli arrivi di tunisini, durante i mesi estivi, sono quadruplicati nel 2020 (fino a costituire il 38% del totale degli approdi) e sono proseguiti a ritmo sostenuto nel 2021. Gli attraversamenti del Mediterraneo sono ricominciati sia con mezzi nautici tradizionali, dei quali è aumentata nettamente la domanda, che con mezzi autogestiti, dunque ulteriormente pericolosi; tutto ciò ha determinato un aumento di salvataggi, ma anche di tragedie.
Incertezza sovrana
Non è facile capire dove andrà la Tunisia, fra luci e ombre di un percorso così ramificato. La cronaca recente è la storia del convergere di più crisi, e dei falliti tentativi di superarle. Con novità politiche – per esempio l’incarico di formare il governo conferito a fine settembre dal presidente della repubblica, Kais Saied, alla professoressa Najla Bouden, prima donna premier in un paese arabo – di cui è assai difficile, al momento, scorgere portata, tenuta e possibili evoluzioni.
Quel che è certo, è che il Covid 19 ha colto il paese impreparato: la crisi sanitaria si è fatta rapidamente economica e ha aggravato quella sociale da tempo in atto, vera e mai risolta origine della Primavera Araba. Tensioni multiple, intrecciate, reciprocamente aggravatesi, che hanno infine condotto all’incidente istituzionale di luglio, quando il presidente Saied ha decretato lo stato d’emergenza e lo scioglimento del parlamento, riportando la Tunisia nelle scalette dei grandi media europei. L’incertezza regna sovrana nel paese, solletica vecchie inquietudini e solleva nuovi interrogativi. Mandando – anche letteralmente – alla deriva i più deboli e i meno protetti: migliaia di tunisini e stranieri, nuovi e vecchi migranti, che sono tornati a cullare la disperata illusione dell’oltremare.
Aggiornato il 06/05/23 alle ore 10:58