Largo alla freschezza dei giovani
Don Antonio Panico, preside della sede universitaria Lumsa di Taranto e direttore dell’Ufficio per i problemi sociali e il lavoro dell’arcidiocesi pugliese, non solo ha seguito da vicino i lavori della 49ª Settimana sociale dei cattolici italiani, svoltasi a fine ottobre, ma ha fattivamente contribuito alla preparazione dell’evento e allo sviluppo dei contenuti. Connessioni tra fenomeni di povertà e degrado ambientale, opportunità e costi della transizione ecologia, ruolo delle buone prassi territoriali e protagonismo dei giovani: sono molti gli spunti su cui riflette, a valle della Settimana di Taranto, e su cui richiama un rinnovato impegno della Chiesa italiana, per rendere più vicino Il pianeta che speriamo.
Don Panico, cominciamo dal sottotitolo della Settimana sociale: “Ambiente, lavoro, futuro. Tutto è connesso”. Anche i fenomeni di povertà manifestano questa connessione?
I Vescovi e il Comitato scientifico hanno avuto ragione nell’evidenziare che tutto è connesso. Quella che noi definiamo sostenibilità si compone di tante dimensioni; ne esiste una ambientale, alla quale si è fatto ampio riferimento durante la Settimana tarantina, che però non può indurci a sottovalutare la sostenibilità economica e la sostenibilità sociale. Le tre dimensioni vanno mantenute congiunte, sia sul versante dell’analisi che sul versante dell’azione.
La lunga stagione della pandemia, e ora del post-pandemia, ha evidenziato una maggior tendenza, da parte di individui e soggetti sociali, a cogliere queste connessioni, oppure prevale l’attitudine a mettere in sicurezza se stessi?
Ho ricavato alcune impressioni, che andranno suffragate da dati scientificamente testati, dal confronto con alcuni colleghi, oltre che dall’analisi delle esperienze Caritas e dei servizi alla persona. Mi sono fatto l’idea che nella prima fase della pandemia si è manifestata una grandissima solidarietà, sia nel mondo ecclesiale sia nell’ambito civile e istituzionale. Molte persone hanno manifestato (con diverse forme di volontariato, o donazioni) una forte reazione solidale alla pandemia, che ha sostenuto anche lo sforzo dei soggetti organizzati. Ma nella seconda fase si è cominciato a preferire la custodia del proprio patrimonio, è subentrato il timore che le difficoltà potessero proseguire per un tempo lungo, è tornato a prevalere il principio del “si salvi chi può”. Siamo tornati a un approccio più individualista ed egoista alle difficoltà del momento.
Si può insomma temere che ai rimbalzi dell’economia non corrisponda un rimbalzo altrettanto positivo, sul versante della consapevolezza che ci si salva soltanto insieme?
In questo momento si constata la possibilità di una ripresa, e nello stesso tempo circola il timore di tornare alla situazione precedente. Nella primissima fase della pandemia si respirava una diffusa propensione alla solidarietà, incardinata sull’idea che ci si poteva salvare solo tutti insieme. Sentendo alcuni imprenditori, anche quelli impegnati in ambito cristiano, che abbiamo coinvolto nella Settimana, oggi c’è invece la sensazione di doversi in qualche modo proteggere. Quando si ha la responsabilità di un’azienda, di tanti posti di lavoro, la tendenza prevalente è mettere in sicurezza se stessi e le persone che da quel lavoro dipendono, poi magari si può pensare a fare qualcosa per gli altri…
A Taranto si è insistito molto sul valore delle buone pratiche, ambientali e sociali, anche applicate al mondo del lavoro. Ma fino a dove possono arrivare le buone pratiche? Possono correggere e riorientare i processi produttivi ed economici, oppure sono più rilevanti le decisioni politiche ed economiche di sistema?
Le buone pratiche possono essere contagiose e possono contagiare positivamente coloro i quali hanno già una buona predisposizione all’attenzione a certi temi. Il punto è però, tristemente, che certi buoni principi non possono essere imposti per legge. La presa di consapevolezza da parte dei governi e degli attori dell’economia deve essere più decisa. In tanti hanno bisogno non solo di un incoraggiamento, ma anche di regole più precise, perché altrimenti non rinunceranno al primato del profitto e del tornaconto individuale. Le buone prassi sono un ottimo strumento per incoraggiare e non far sentire solo chi ha una certa sensibilità: a Taranto noi abbiamo fornito numerosi esempi di quanto di meglio offrono i territori, e molti – anche imprenditori – hanno dichiarato di voler prendere spunto da quanto hanno visto. Però altri hanno bisogno sicuramente di una stretta anche legislativa. Non abbiamo più molto tempo per attuare serie politiche ambientali. Il bla bla bla di cui parla Greta è qualcosa di cui avere veramente paura.
Visto da Taranto, che è anche la città dell’Ilva, la transizione ecologica è allora un’utopia, o un percorso davvero praticabile? E ha ragione chi teme che, nel suo realizzarsi, possa generare nuove sacche di povertà e forme di esclusione sociale?
Stiamo cominciando a lavorare, nella sede universitaria di Taranto, insieme ad alcune realtà del terzo settore e con l’ente comunale, su un progetto che intende mettere misure e risorse a disposizione dei luoghi e della comunità dove la transizione deve ancora iniziare e inciderà di più. Abbiamo la consapevolezza che questo percorso deve cominciare, lo vogliamo con tutto il cuore, lo speriamo con tutto noi stessi: la situazione attuale, a Taranto, comporta costi enormi dal punto di vista non solo sanitario, ma anche umano e persino pastorale. Qui la prospettiva che l’uscita dal carbone nella produzione dell’acciaio possa essere rimandata di qualche decennio appare veramente insostenibile. Sappiamo d’altronde che la decarbonizzazione, alla quale tutti i soggetti locali guardano con convinzione, provocherà una disoccupazione di ritorno di non poco conto. A subire un forte contraccolpo saranno non solo i lavoratori dell’acciaio, ma anche quelli delle numerose aziende dell’indotto. Noi vogliamo studiare e preparare adeguate contromisure, impegnando il denaro e le risorse che sono e saranno messe a disposizione del territorio. Quello che stanno facendo gli enti locali in proposito è davvero encomiabile, io non posso che riconoscerlo, sia da cittadino tarantino che da osservatore esterno, analista delle politiche sociali. Ci aspettiamo che il governo faccia altrettanto, in questa e altre situazioni analoghe, anche se magari di minor impatto economico e sociale, e che si vada con decisione verso una reale transizione ecologica; ci vorrà del tempo, ma piano piano si inizierà a produrre in un modo più sostenibile. Dai governi e dalle autorità superiori ci aspettiamo posizioni chiare; vediamo se ai proclami delle ultime settimane seguiranno politiche realmente compatibili con la salute umana e la salute del pianeta, molto più decise di quelle che abbiamo potuto tristemente registrare negli ultimi decenni.
Queste discussioni hanno a che vedere anche con il ruolo dei giovani, dibattuto durante la Settimana sociale. I giovani sono destinatari futuri di questi processi, o – come hanno dimostrato per esempio nel cammino preparatorio e nei giorni della Cop 26 a Glasgow – possono essere protagonisti di una “transizione compatibile”?
Posso testimoniare quello che sta succedendo qui a Taranto, perché è molto interessante. Con l’università e in vista della Settimana abbiamo ascoltato i giovani del quartiere più vicino all’acciaieria, il quartiere Tamburi, il più interessato dai terribili effetti ambientali e umani dell’acciaieria. Sapevamo che in esso vigeva e vige una completa disaffezione rispetto a quanto può essere proposto dalle istituzioni, e ai giovani abbiamo chiesto «Cosa avete intenzione di fare, rimanete qui o andate via?». Ne è emersa una tendenza interessante: piuttosto che lavorare nell’industria che impatta così gravemente sul loro quartiere, i ragazzi di Tamburi sono disposti ad andarsene. Eppure sono persone che amano perdutamente la loro bella città. Ma piuttosto che andare a lavorare nella realtà che prima assorbiva tutti i loro padri e fratelli, piuttosto che soggiacere al “ricatto occupazionale” che è gravato sul quartiere per decenni, oggi sono disposti ad altre prospettive di vita, anche lontano. Come ha detto uno dei membri del Comitato scientifico della Settimana sociale, l’economista Leonardo Becchetti, in qualche modo «è come se i ragazzi avessero già votato», e quindi stanno incidendo. Credo che questa consapevolezza sia diffusa anche altrove; bisogna però offrire loro strumenti e politiche, affinché la reazione a un modello produttivo ed economico insostenibile non sia solo la fuga, ma possa avere prospettive di costruzione, di realizzazione di nuovi progetti. Qui, per esempio, l’amministrazione comunale ha lanciato un ampio percorso di ascolto della cittadinanza, al quale l’università sta collaborando e che sta dando buoni frutti: i suggerimenti che arrivano dalle persone ascoltate, tramite un ascolto libero, delineano alternative possibili alla cosiddetta “monocultura dell’acciaio”, alle quali bisogna dare credito. Io credo che questi processi siano facilmente replicabili anche altrove: se davvero le istituzioni hanno a cuore la realizzazione del bene comune, si possono ridurre le povertà, l’impatto ambientale, le malattie che vengono determinate da questo impatto, e tanti altri problemi, tramite alleanze e pratiche inedite, ma non utopistiche.
Caritas fa qualcosa di concreto per i poveri, in maniera
non assistenzialistica: può dunque attrarre tanti giovani
che coltivano un’analoga volontà di promozione umana
In definitiva, quale lezione principale e quale sfida impellente la Caritas e la Chiesa italiane possono derivare dalla Settimana di Taranto?
La freschezza del mondo giovanile, anche quella che non necessariamente fa riferimento al mondo delle parrocchie, dove è organizzata la nostra pastorale in Italia, va in qualche modo valorizzata. Io credo che la Caritas, più che altre realtà del mondo ecclesiale, possa riuscire a coinvolgere persone giovani che hanno voglia di un mondo migliore, anche se queste persone magari in chiesa non ci vengono, non hanno un percorso regolare da praticanti. Anche il percorso The Economy of Francesco ha coinvolto ragazzi non tutti provenienti dai nostri mondi, ma lo scambio tra le culture e le esperienze è di per sé stimolante. Credo che Caritas, dal momento che fa qualcosa di concreto e di veramente utile per i poveri, in maniera non assistenzialistica, possa attrarre e lasciarsi interpellare da tanti giovani che coltivano un’analoga volontà di promozione umana. Non è vero che i giovani, o comunque tutti i giovani, siano distratti, che pensino alle sciocchezze; è un luogo comune che va sfatato. La Caritas può molto: deve ripartire da persone giovani, e creare alleanze con i giovani che hanno l’interesse comune a promuovere l’uomo e la tutela del suo ambiente di vita, ovunque e in tutti i modi.