17 Novembre 2021

Il tempo (di cambiare) è adesso

La questione climatica dopo la Cop 26 di Glasgow: tra gorilla nella stanza, nuova generazione di fake news e astuzia degli “inattivisti climatici”


Il dossier sui problemi climatici pubblicato di recente da Caritas Italiana e intitolato Il momento è adesso ha cercato di mettere in evidenza i dati di fatto riguardanti la crisi che il pianeta sta attraversando: un livello di riscaldamento delle temperature che impone la massima attenzione determina il rischio di porre l’umanità di fronte a sfide che ben difficilmente potranno essere affrontate in modo efficace.

Il dossier di Caritas Italiana in vista della Cop 26 a Glasgow

Come insegnato e incessantemente rilanciato da papa Francesco, in vari passaggi del suo pontificato e del suo magistero, non esiste però corretta valutazione della crisi ambientale senza piena assunzione degli elementi sociali: non si tratta solo di un’altra dimensione da aggiungere a un modello analitico, ma di lasciarsi guidare dal volto e dalle storie delle persone e delle comunità che già oggi stanno pagando un prezzo enorme per i cambiamenti in corso.

La valutazione su quanto è avvenuto a Glasgow, in occasione della Cop 26, la Conferenza internazionale sui cambiamenti climatici svoltasi a inizio novembre, non può che essere informata a questi principi di fondo, e non può essere positiva: chi si aspettava azioni concrete per dare attuazione all’accordo di Parigi sul clima ha tutte le ragioni di essere deluso. E senza impegni concreti – lo hanno detto in molti – andiamo dritti verso il disastro.

Lontani dagli impegni necessari
Alcuni elementi positivi, primo tra tutti il fatto che la Cop stessa si sia comunque tenuta, e si sia giunti a un pur debole documento finale, mantengono vive le speranze che nel futuro si possa arrivare a una convergenza su misure realmente efficaci.

È famoso l’esperimento del “gorilla nella stanza”: nessuno dei partecipanti all’esperimento arriva a notare la presenza ingombrante dello scimmione, perché troppo impegnati a curarsi di alcuni dettagli specifici. Riguardo al clima, si può sostenere che alcuni dei “gorilla” più importanti sono stati finalmente (e tardivamente…) riconosciuti: oltre all’ormai definitiva consapevolezza della necessità di puntare a limitare entro 1,5 gradi l’aumento del riscaldamento del pianeta, non può essere sottaciuta l’importanza della prima menzione, in un documento finale approvato in una Conferenza delle Nazioni Unite, dello scandalo dei sussidi ai combustibili fossili: cioè della folle idea che si debbano impiegare risorse provenienti dalla fiscalità generale per rendere più conveniente l’uso di quei combustibili che ci portano dritti verso il baratro di una crisi climatica incontrollabile; per di più – guardando la questione da un punto di vista europeo – prodotti all’esterno del nostro continente, spesso da regimi autoritari e sotto il controllo di incontrollabili compagnie transnazionali.

Senza passare in rassegna tutti gli elementi emersi dalla Cop26, per i quali vi rimandiamo ad altra fonte, concentriamoci però sull’essenziale: sul fatto cioè che siamo ben lontani dagli impegni necessari per – detto senza allarmismi, ma sulla base dell’ultimo rapporto Ipcc – evitare una crisi climatica tale da mettere a rischio la sopravvivenza della maggior parte dell’umanità. Le evidenze scientifiche sono ormai inconfutabili, e i ripetuti tentativi di annacquare il riconoscimento della gravità della situazione, oppure della responsabilità dell’attività umana rispetto a essa, sono stati ormai documentati in abbondanza. Il cambiamento è necessario e inevitabile, l’unica scelta è sul come avverrà: in modo accompagnato, in modo da salvaguardare le condizioni di vita soprattutto delle persone e delle comunità più vulnerabili; oppure in modo “in governato”, continuando nel business as usual, fino a che quest’ultimo sarà diventato semplicemente impossibile, e le cose si aggiusteranno da sole, con danni collaterali incalcolabili per la maggior parte dell’umanità?

Desertificazione in Etiopia e Ciad (sopra): effetto visibile dei mutamenti climatici (foto Caritas Internationalis)


Zebù, breasole e foreste
La fiche di coloro che ostacolano l’assunzione delle iniziative necessarie viene adesso giocata in modo diverso: non più negando frontalmente l’innegabile, ma con strategie nuove e insidiose. Come ha recentemente svelato la Bbc, alcuni paesi hanno cercato in tutti i modi di “addolcire” le conclusioni dei rapporti scientifici che riconoscono la necessità di una svolta netta rispetto all’uso dei combustibili fossili, mentre altri (grandi produttori di prodotti di origine animale) hanno esercitato pressioni per modificare le conclusioni che riconoscono nella produzione di carne uno dei fattori di rischio climatico più significativo. In quest’ultimo caso sono coinvolti paesi come il Brasile, ma poi la questione riguarda la carne che consumiamo noi tutti, magari sotto forma di bresaola della Valtellina… Nel corso della conferenza di Glasgow sono inoltre finiti sotto i riflettori i paradossali dati della Malesia, le cui foreste sono state presentate come in grado di assorbire anidride carbonica a un ritmo 4 volte superiore di quello delle stesse foreste nella vicina Indonesia! Si tratta di uno sport estremamente diffuso tra moltissimi paesi: sottostimare sistematicamente il livello di emissioni, per presentarsi come più “climaticamente virtuosi” di quanto non si sia.

Per gli “inattivisti climatici” la situazione è grave.
Ma il precipitare della situazione è ineluttabile, perché
rovesciare la tendenza avrebbe costi insostenibili

Ma le prospettive di opposizione a una svolta veramente radicale (e necessaria), stanno trovando altri raffinati sviluppi. È tempo ormai per una seconda generazione di fake news, basate sulla proposta di “ipotesi alternative” per la lotta al cambiamento climatico, ipotesi che non hanno in realtà nessuno spazio di realtà e che vengono usate come argomenti da coloro che il climatologo Michael Mann ha definito “inattivisti climatici”. Si tratta di chi, spesso ai vertici delle catene di decisione politica, non nega la gravità della situazione, ma in qualche modo riconosce l’ineluttabilità del precipitare della situazione, a fronte di costi insostenibili che dovrebbero essere affrontati per rovesciare la tendenza. Abbiamo ancora ben presenti le dichiarazioni di alcuni: «Transizione ecologica? Sarà un bagno di sangue!».

Lottare, ma non subito…
Qual è la allora strada da intraprendere? Per gli “inattivisti”, si deve certamente lottare contro le emissioni, ma forse non subito… Dobbiamo, sostengono, darci il tempo di prepararci al meglio. Rimandare, in effetti, è da sempre una strategia vincente, soprattutto se non ci sono prezzi immediati da pagare (oppure se, grazie all’altrettanto efficace “strategia dello struzzo”, ci si rifiuta di ammettere i prezzi che già ora l’umanità sta pagando).

Manifestazione Caritas in occasione di un vertice sul clima (foto Caritas Internationalis)

Tra coloro che sono interessati a rimandare figura di certo – a livello globale – chi punta ancora sul carbone; ma anche chi sente da lontano (abbastanza lontano, per la verità) il profumo di nuove e mirabolanti tecnologie, che permetterebbero di accelerare verso una fantascientifica transizione priva di costi, in cui i nostri livelli di consumo – in primo luogo di energia – potranno continuare a crescere indisturbati. Questo è il senso del carsico e imperterrito riaffiorare dell’idea del nucleare “verde”: ovviamente nessuno nega che la ricerca vada continuata su tutti i fronti (compreso quello di una molto futuribile fusione), ma non è certo un caso se la Germania, con la Spagna e altri 5 paesi, abbiano preso nettamente posizione contro la proposta, avanzata in sede europea, di inserire l’energia nucleare nel novero delle tecnologie a basse emissioni, che dovrebbero accompagnare la transizione energetica. Non è un caso che questa proposta sia avanzata da un fronte di paesi fortemente “nuclearizzati”, guidati dalla Francia. E purtroppo non è un caso neanche che l’Italia abbia mantenuto una posizione ambigua sull’argomento… Ma mentre il mondo intero si trova tra le mani la patata bollente di un numero crescente di vecchi impianti da smantellare, con costi giganteschi, e scorie nucleari di cui nessuno sa bene cosa fare, non si può negare neanche il rischio di una pericolosa commistione tra nucleare civile e militare.


Questa proposta, come quella (peraltro densa di incognite di tipo geopolitico) di affidarsi al gas naturale come “tecnologia” di transizione, si muovono nello stesso ambito: ritardare le scelte, affidandosi all’“usato sicuro”, in attesa di tecnologie che non ci sono (e che non sono al momento neanche prevedibili), per evitare in primo luogo l’urgenza di accelerare il passo verso le energie rinnovabili, ma anche l’urgenza di stabilizzare e ridurre i consumi. Impegno che in primo luogo spetterebbe a coloro (e noi siamo tra quelli) che consumano la maggior parte delle risorse presenti e future del nostro pianeta.

Siamo, insomma, in un passaggio cruciale e necessario, se vogliamo dare un futuro al pianeta e ai suoi abitanti. È forse questo l’ultimo gorilla, il più massiccio e arrabbiato, che sta continuando a girare indisturbato.

Aggiornato il 02/12/21 alle ore 18:04