Spargiamo simboli di pace
L’importanza simbolica di un gesto come una manifestazione pacifica contro le atrocità della guerra è il primo passo per non cedere all’indifferenza e al cinismo. Una diga all’enorme inganno che è “il nemico”, la gabbia mentale che produce divisione e lontananza.
Parole e immagini sono le armi del nemico, paura e violenza alimentano a loro volta un circolo vizioso di una realtà falsificata. La via per la pace è invece quella di unire gli sforzi per capire che il nemico è un inganno che divide, contrappone.
UN’UNICA REALTÀ
Per questo motivo c’è bisogno di recuperare simboli di pace. La loro presenza è fondamentale, perché, riconducendoci alla fratellanza, sono una sorta di vaccino culturale contro la mentalità bellica.
Il simbolo si pone come il contrario del nemico, perché unisce, come ricaviamo dalla sua etimologia greca. La parola deriva dalla combinazione del prefisso σύμ (sym) – “insieme” – con il verbo βάλλω (ballo), “getto”, e quindi significa “metto insieme”, ossia riunisco. Anticamente, il simbolo indicava i due pezzi di un legno, di una tavoletta o altro materiale, che veniva diviso in due, in maniera non proprio netta, che, una volta riunito, si ricomponeva perfettamente, diventando così un segnale di riconoscimento. Anche oggi il simbolo, ricongiungendo, crea un legame di fratellanza, e soddisfa il desiderio di sentirsi parte di un’unica realtà di relazione, la quale nei momenti di grave minaccia è ancora più forte.
Uno dei simboli più potenti è sicuramente quello delle due mani che si uniscono, l’antico simbolo in cui attraverso il tatto avviene il riconoscimento.
Per converso, mi vengono in mente immagini crudeli, di quando cioè le mani si lasciano, anzi, sono costrette a lasciarsi. Noi, a Rondine, custodiamo l’immagine di Liliana Segre quando racconta l’ultima volta in cui accarezzò la mano di suo padre: non l’avrebbe mai più toccata, perché il padre di lì a poco sarebbe finito nella camera a gas di Auschwitz-Birkenau.
Oggi vediamo le mani dei padri e delle madri che salutano i figli, le mani delle compagne che salutano i loro compagni, le mani degli anziani: sono tutte mani che si lasciano. Ecco, questa mi sembra la tragedia della guerra che divide. Non a caso, il contrario di simbolo è διαβάλλω (dia-bàllo), da cui il termine “diavolo”: chi separa per antonomasia.
SIMBOLI DI PACE
A Rondine, fin da subito i nostri giovani della World House hanno esposto insieme la bandiera russa e ucraina, annodandole. Quale segno della volontà di non abbandonarsi reciprocamente, il gesto diventa il simbolo di pace di quei tanti giovani che su entrambi i fronti continuano a invocare “No alla guerra”. Pensiamo a una scena-simbolo risalente al 4 giugno 1989: sulla Piazza Tienanmen di Pechino un giovane rivoltoso sconosciuto si parò davanti a una fila di carri armati, obbligandoli a fermarsi e a deviare. In qualche modo, era un’alternativa all’aggressione!
Oggi, ricordando episodi di cronaca più recenti, colpisce il contadino ucraino mentre dialoga con il soldato russo, costretto a chiedere aiuto perché il suo mezzo corazzato si è impantanato: è un chiaro simbolo di pace che nasce da una tragica esperienza. Rappresenta l’irresistibile desiderio di non rinunciare al dialogo, ossia il disperato tentativo di una persona che dice: «Soldato che sei dentro quel ferrovecchio, sei sempre mio fratello!».
VALORIZZIAMO I GIOVANI
Cosa vuol dire tutto questo? Dobbiamo ostinatamente valorizzare i giovani che da entrambe le parti si contattano e si dicono nei modi più impensabili di non volersi arrendere alla logica della guerra. In fondo, comunicano questo: «Noi non vogliamo separarci, noi siamo con metà del nostro cuore al tempo dopo la guerra, quando dovremo ricostruire i rapporti tra i due Stati e riallacciare le relazioni tra le tante persone conosciute».
* Fondatore e Presidente di Rondine Cittadella della Pace
Aggiornato il 12/06/22 alle ore 12:42