Giordania, terra di rifugiati
All’interno di una regione, quella mediorientale, tra le più instabili del mondo, troviamo la Giordania, un piccolo Paese di poco più di dieci milioni di abitanti retto dal 1946 dalla monarchia hashemita, che ha resistito senza particolari scossoni alle diverse crisi internazionali, alla primavera araba, e ai tanti conflitti che le sono scoppiati attorno.
Sebbene la Giordania sia costituita da un territorio senza particolari risorse naturali ed economiche, per lo più arido (è il secondo Paese al mondo per scarsità d’acqua), proprio per la sua relativa stabilità non solo rappresenta un punto di riferimento importante a livello geopolitico, ma anche per l’accoglienza di milioni di profughi costretti a scappare in cerca di protezione dal conflitto israelo-palestinese, dalla ormai decennale guerra in Siria, dalla crisi Irachena (soprattutto cristiani fuggiti dall’avanzata del Daesh), dalla guerra in Yemen, nonché dalla più recente crisi afghana.
Nel tempo, in particolare nel 1948, con la guerra israelo-palestinese, e poi nel 1968, con la guerra dei “sei giorni” e la successiva e continua occupazione dei territori della Cisgiordania da parte di Israele, si sono rifugiati in Giordania più di tre milioni di profughi palestinesi che a diverse ondate si sono insediati nel contesto giordano. I palestinesi rappresentano una parte attiva e significativa della popolazione giordana, hanno contribuito a costituire e a plasmare l’identità e l’intreccio culturale, integrandosi nel Paese. La maggior parte dei palestinesi in Giordania, seppur a diversi livelli, sono infatti naturalizzati come cittadini giordani, e i campi profughi esistenti sono di fatto diventati insediamenti urbani.
Un discorso diverso riguarda invece gli altri migranti e richiedenti asilo, arrivati a partire dagli anni Duemila, e soprattutto dal 2011 con la guerra siriana. Attualmente sono 1,3 milioni i siriani che vivono in Giordania. Di essi, circa 700.000 sono registrati come richiedenti asilo presso l’UNHCR, ai quali si aggiungono i rifugiati Iracheni, yemeniti e di altri Paesi. La Giordania è di fatto il secondo Paese al mondo per presenza di rifugiati rispetto alla popolazione ospitante. Ci sono inoltre migranti lavorativi, di altre nazionalità, che vengono da Egitto, Bangladesh e altri Paesi, che vengono impiegati soprattutto nei settori dell’agricoltura ed edilizia, ma anche, le donne, come domestiche.
Tra i rifugiati in Giordania, solo il 19% risiede nei campi di accoglienza ufficiali, a Za’atari (80.359 residenti), Azraq (43.776 residenti) e Mrajeeb Al Fhood (6.654 residenti). Il restante 81% dei rifugiati registrati vive invece nelle aree urbane: il 36% ad Amman, il 25% a Irbid, il 16% a Mafraq e il 9% a Zarqa. La maggior parte di loro vive quindi all’interno delle cosiddette comunità ospitanti giordane. Essi rappresentano una parte particolarmente fragile della popolazione, che vive per lo più di assistenza umanitaria, basti pensare che solo il 31% dei siriani e il 26% dei non-siriani risulta occupato nel mercato del lavoro.
Tuttavia se da un lato i siriani possono avere un permesso di lavoro, più difficile ancora è ad esempio la situazione degli iracheni, che non possono ottenerlo e dunque sono costretti a sopravvivere solo con sussidi delle ONG o a lavorare in nero. Proprio per questo molti dei progetti di sostentamento di Caritas Jordan, con laboratori di artigianato, di agricoltura ecc., si sono rivolti soprattutto a loro. Le condizioni dei rifugiati e migranti rimangono estremamente precarie. Oltre l’80% dei rifugiati siriani vive al di sotto della soglia di povertà nazionale con un reddito medio mensile di circa 200 euro derivante da una combinazione di lavoro, assistenza umanitaria e rimesse. L’11% di essi si trova in condizione di estrema indigenza, con un reddito mensile pro-capite inferiore a 28 dinari giordani (circa 33 euro). Negli ultimi due anni il 91 % delle famiglie di rifugiati ha ricorso a strategie negative di adattamento, c’è stato un aumento del 25% delle famiglie che hanno contratto debiti, di cui la maggior parte per pagare l’affitto (40%) o per soddisfare bisogni essenziali come il cibo (22%).
Anche se il governo giordano ha sempre sostenuto una politica di apertura delle frontiere nei confronti dei rifugiati, sono cresciute le tensioni interne e gli scontri tra la popolazione giordana e quella accolta. Tensioni che si sono acuite nell’ultimo periodo con la pandemia quando il tasso di disoccupazione è cresciuto drasticamente e l’economia giordana, già piuttosto fragile (il settore trainante è il turismo, mentre l’agricoltura risente dell’endemica mancanza di acqua), ha subito un’ulteriore contrazione. La disoccupazione è salita al 22,8% mentre quella giovanile ha raggiunto un 50% senza precedenti.
La guerra in Ucraina rappresenta un ulteriore elemento di crisi. Se da un lato lo Stato ha calmierato il prezzo di farina e di conseguenza del pane, l’aumento dei prezzi, in particolare dei carburanti e dei fertilizzanti, hanno comunque contribuito ad aumentare il costo della vita. Inoltre la prospettata, e parzialmente già in atto, riduzione di aiuti umanitari che vengono deviati dal Medio Oriente per destinarli all’emergenza ucraina, sono una fonte di grande preoccupazione e fattore di potenziale instabilità non solo per la Giordania ma per l’intera regione.
Inoltre, per i Paesi “occidentali”, soprattutto europei, che si sono sempre impegnati a sostenere programmi di assistenza ai rifugiati nella regione, la crisi energetica dovuta al taglio delle forniture di gas da parte russa e l’annuncio di molti di loro, come la Germania, di portare le proprie spese militari al 2% del PIL, potrebbero comportare un’ulteriore considerevole riduzione delle risorse impiegate per la solidarietà e cooperazione internazionale. In questa situazione le conflittualità vengono esacerbate.
L’accoglienza ha comportato e comporta uno sforzo notevole di adattamento da parte della popolazione locale giordana. L’arrivo di milioni di profughi, seppure provenienti da Paesi limitrofi, di lingua, cultura e religione simile (quindi senza uno shock culturale iniziale), ha implicato uno sforzo infrastrutturale e un cambiamento del tessuto sociale del Paese e delle città. Si sono creati dei nuovi quartieri e insediamenti, e in generale il Paese ha dovuto far fronte a un maggiore consumo di risorse naturali (basta pensare solo all’acqua potabile) ed economiche. Infatti, considerando lo stato di povertà dei migranti, essi hanno avuto bisogno anche di appoggiarsi al welfare pubblico: sanità, educazione e assistenza ai bisogni essenziali in primis.
Essi sono stati sostenuti soprattutto da aiuti internazionali, e stanno diventando sempre più oggetto di rivendicazioni da parte della popolazione locale, soprattutto quella vulnerabile, che sente di dover competere con le comunità immigrate per risorse sempre più scarse. Proprio per questo in Giordania, Caritas Italiana con Caritas Jordan hanno deciso di concentrare i propri sforzi su ciò che riguarda la salute, che è oggetto proprio del progetto della Campagna “Insieme per gli ultimi” che mira a sensibilizzare e a promuovere iniziative di solidarietà nella regione del Medio Oriente.
L’accesso al sistema sanitario giordano è ancora carente, in particolare per quanto riguarda l’assistenza alle fasce più vulnerabili della popolazione compresi i migranti. Basti pensare che il 51% di famiglie rifugiate siriane e 43% di quelle non siriane non hanno accesso a cure sanitarie. La spesa sanitaria per le famiglie rifugiate incide per oltre il 66% del bilancio familiare, ed è inoltre motivo di indebitamento (ad esempio il 27% dei rifugiati siriani si indebita proprio per questo).
Caritas Jordan, con le sue 12 cliniche e centri comunitari sparsi in tutto il Paese, è un punto di riferimento fondamentale per i più deboli, tra tutti i rifugiati. Attraverso il progetto sanitario verrà assicurata soprattutto l’assistenza sanitaria primaria, ma anche l’aiuto alle madri rifugiate particolarmente vulnerabili nel periodo pre e post natale, sia per le donne in gravidanza o che allattano, sia per i bambini sotto i 5 anni per evitare casi di malnutrizione (consideriamo che l’80% dei rifugiati è a rischio di insicurezza alimentare e che il cibo è proprio uno dei maggiori fattori di indebitamento).
*Operatore di Caritas Italiana in Giordania
Aggiornato il 06/05/23 alle ore 11:03