La percezione del tempo
Foto: Valeria Capillupo, Casco bianco 2022 in Serbia con Caritas Italiana (al centro, con il gilet) insieme con i ragazzi del Centro di accoglienza
Quattro mesi. Due settimane. Una notte. Una sola notte per recuperare energie, ricevere un pasto e farsi una doccia prima di continuare il viaggio, prima di provare – o riprovare – il game (nome che viene dato dai migranti al tentativo di attraversamento di una frontiera). Le persone in movimento lungo la cosiddetta Rotta Balcanica sono proprio come delle pedine in attesa di una nuova mossa che consentirà loro di proseguire lungo il percorso o di rimanere bloccati. E come nel più famoso gioco da tavolo, anche qui si può pescare un imprevisto: «Non hai abbastanza soldi per proseguire il tuo viaggio, aspetta il prossimo giro»; «Sei stato beccato dalla polizia ungherese, ritorna indietro»; «Il passaggio per la Bosnia è saltato, dormi nei boschi sotto la pioggia per due giorni».
Il Centro di asilo e accoglienza di Bogovadja in Serbia è un edificio nascosto tra gli alberi e situato a chilometri di distanza da Belgrado, in un paesino – Bogovadja, appunto – nella municipalità di Lajkovac, in cui i pochi abitanti rimasti sono prevalentemente anziani e dove c’è un piccolo negozio in cui comprare beni di prima necessità. Soprattutto, a pochi chilometri c’è la stazione da dove si può prendere un pullman per la capitale, tappa obbligatoria se si vuole proseguire verso l’UE. Nel Centro di accoglienza si incontrano persone provenienti da diversi Paesi e diverse culture, che a volte condividono tanto: quasi tutti sono in viaggio da molto tempo; quasi tutti sono arrivati a piedi in Serbia attraversando spesso diversi confini, e quasi tutti hanno come ultima meta un Paese dell’Unione europea. Spesso li accomuna anche una lingua, il turco, perché per molti di loro il viaggio lungo la Rotta Balcanica parte o prevede una lunga sosta a Istanbul dove, non importa l’età, si trova un lavoro per mettere da parte i soldi che serviranno per pagare il game.
Dal 2015, anno dello scoppio della famosa emergenza migranti dalla Siria, si parla di Rotta Balcanica ma in realtà sarebbe più corretto dire Rotte poiché a seconda dei periodi, dei contatti, di quanto siano militarizzati i confini, in base anche agli accordi che Bruxelles stringe con i Paesi di frontiera, le persone in movimento arrivano in UE percorrendo diverse rotte. I percorsi di accesso alla Serbia (secondo le testimonianze delle persone attualmente presenti a Bogovadja) sono almeno due: Turchia-Grecia-Albania-Macedonia-Serbia; oppure Turchia-Grecia-Bulgaria-Serbia. Di recente si ha testimonianza anche del percorso Turchia-Grecia-Albania-Kosovo-Serbia.
Da qualche mese si è aperta una nuova rotta che parte dalla Serbia e ha come protagonisti persone provenienti dal Burundi. È uno strano fenomeno sul quale molte realtà che operano nei Balcani si stanno interrogando. Coinvolge prevalentemente famiglie e giovani ragazzi dai 19 ai 25 anni che arrivano in Serbia direttamente in aereo e possono restare nel Paese senza visto per 30 giorni. Molti di loro arrivano con il progetto di restare, ma spesso la Serbia diventa solo una porta di accesso all’Unione europea, l’unica per chi ha il passaporto burundese.
Anche in questo caso entra in gioco il fattore tempo che porta a dei cambiamenti. La procedura per richiedere asilo in Serbia richiede ufficialmente dai tre ai nove mesi, ma nella realtà l’attesa diventa molto più lunga. Entro tre mesi da quando si è espressa la volontà di richiedere asilo si dovrebbe proseguire con la prima intervista, eppure molto spesso passano i 90 giorni e la procedura d’asilo entra in uno stallo che non si sa quando verrà sbloccato.
Ecco allora che la percezione del tempo diventa più soggettiva che mai, perché tre mesi sono un arco di tempo limitato: si inizia a progettare quello che succederà dopo e sebbene non sia facile svegliarsi ogni giorno in un Centro di accoglienza condiviso con altre centinaia di persone, la speranza che entro 90 giorni qualcosa cambierà dà loro un pizzico di ottimismo e proattività. Trascorsi i tre mesi, lo scorrere del tempo diventa sempre più lento, quel momento di svolta sembra non arrivare mai, si perde fiducia nelle istituzioni, svegliarsi ogni giorno in un Centro di accoglienza diventa quasi claustrofobico e la paura di rimanere bloccati inizia pian piano a farsi più grande. Oppure, si ha la percezione contraria: il tempo scorre velocemente, si diventa impazienti e non si può restare immobili ad aspettare perdendo così altri mesi. Cambia quindi il progetto iniziale e si decide di abbandonare il Paese e la procedura di richiesta di asilo e proseguire il viaggio verso l’UE.
E poi c’è la differenza nel percepire il tempo che passa a Bogovadja tra chi vive nel campo e chi, come me, trascorre lì solo qualche ora al giorno. Io e A., ragazzino afghano di 16 anni, siamo arrivati a Bogovadja a distanza di poche settimane. Io sono arrivata grazie al progetto Caschi bianchi di Caritas Italiana, aereo diretto Roma-Belgrado, due valigie piene, un po’ di paura ma carica per questa nuova esperienza. A. è arrivato con una caviglia rotta nel tentativo di attraversare la frontiera ungherese, una busta con qualche vestito, in viaggio da mesi e giunto in Serbia prevalentemente a piedi attraversando Pakistan, Iran, Turchia e Bulgaria; introverso o forse impaurito nell’approcciarsi a noi operatrici. In questi quattro mesi A. ha riprovato il game una sola volta non appena i dottori gli hanno rimosso il gesso: con la caviglia gonfia e dolorante ha lasciato il campo in direzione Ungheria. Ancora una volta. E ancora una volta è stato respinto ed è tornato a Bogovadja.
Da questo momento in poi, forse perché un po’ rassegnato all’idea di doversi fermare per un po’, A. ha iniziato ad aprirsi e a partecipare a più attività. Come tutti i ragazzi afghani ama ascoltare musica ad alto volume e ballare, ti coinvolge con il suo sorriso e anche se non parla una parola di inglese prova sempre a comunicare con noi. Da qualche settimana A. dorme fino a tardi: quelle sei ore che prima erano una pausa ricca di attività nella sua quotidianità in un Centro di accoglienza sono diventate sempre di meno. Per noi volano via, per lui forse sono interminabili. Interagisce poco, non balla più e il dolce sorriso sul suo volto compare solo quando cerchiamo di coinvolgerlo in alcune attività, dalle quali poi fugge. Non so quanto ancora si fermerà a Bogovadja, probabilmente non lo sa neanche lui. Potrebbe essere un giorno o forse un mese. Quello che so è che per A. sarà un tempo inesorabile.
Anche D., senegalese di 23 anni, è arrivato quattro mesi fa senza nessuna percezione di tempo e spazio, confuso riguardo al Paese in cui si trovava e arrabbiato, per niente aperto all’ascolto di chi cercava in qualche modo di aiutarlo. Per lui il tempo nel Centro di accoglienza scorre lentamente, e ogni giorno è sempre più inquieto, convinto di aver perso la testa e di non voler più proseguire il suo viaggio. Vuole tornare indietro, ma anche ritornare a casa richiede tempo, un’attesa insopportabile.
Nel Centro di accoglienza di Bogovadja il senso del tempo è più che mai soggettivo. Quello che è oggettivo, però, è che il trascorrere del tempo porta con sé dei cambiamenti nelle persone che percorrono la Rotta Balcanica. | fine. Segue breve video.
Nel seguente post Instagram, un breve video realizzato da Valeria Capillupo in occasione della 108a Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato (25 settembre 2022) con i volti e le voci degli ospiti del Centro di accoglienza di Bogovadja:
Aggiornato il 10/09/23 alle ore 20:13