Il valore della cura
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Novembre, piena stagione delle piogge. Quasi ogni notte a GunungSitoli piove. Il cielo inizia illuminandosi di lampi, poi arrivano fortissimi tuoni e dopo poco inizia a scendere acqua, tantissima. Il suono dell’acqua sui tetti ci accompagna nella notte: sottofondo dei sogni miei e dei bambini di Alma.
Sognare mentre si dorme è facile. La mattina, spesso, chiedo ai bambini che cosa hanno sognato la notte precedente e le risposte sono bellissime. In particolare, una ragazza, Lestari, quasi ogni mattina mi racconta di tutti i suoi parenti o amici del villaggio che le vengono in sogno a raccontarle cosa succede lì. Nel sogno c’è quasi sempre il nonno che le racconta gli ultimi pettegolezzi del villaggio: qualcuno si è sposato indossando gli abiti tipici di Nias o uccidendo un grande e grosso maiale per l’occasione. Per Lestari è un modo di esprimere la mancanza dei suoi cari che probabilmente avverte ogni giorno.
È invece difficile sognare quando si è svegli, a occhi aperti, creando nuovi scenari e immaginari.
Vivono nel villaggio costruito dalle suore Alma, una realtà staccata da quella di Nias solo da un cancello, ma che riesce però a risultare quasi incantata.
La vita a Nias, quella del villaggio, è scandita dai ritmi lenti e concreti, i ritmi della natura. Anche lo spazio e la sua suddivisione presentano significati nascosti all’occhio: il villaggio, agglomerato di case, rappresenta l’interno, ciò che è conosciuto o il bene; mentre le risaie, la foresta, le strade rappresentano l’esterno, l’ignoto o il male.
La casa tradizionale a Nias è, infatti, una rappresentazione del cosmo in cui la parte inferiore rappresenta il mondo degli inferi; la parte centrale, l’area della casa vera e propria, rappresenta il mondo terreno; poi il tetto, puntando verso l’alto, rappresenta il mondo celeste, quello dopo la morte. Tradizioni antiche e lontane che però quasi sicuramente hanno influenzato il tipico pensiero a Nias.
Gli abitanti di Nias, poiché costantemente in guerra tra villaggi, temevano ciò che poteva presentarsi fuori dal villaggio. Lestari ogni volta che vede me e Bianca – la mia compagna casco bianco – uscire da Alma ci chiede, quasi in maniera ossessiva: «Mau ke mana?» (dove andate?). Una domanda che qui a Nias si sente continuamente, come una costante. Un’usanza tramandata probabilmente per la paura di ciò che potrebbe accadere all’esterno, oltre che ovviamente per curiosità. «Dove vai?» lo si chiedeva agli altri abitanti del villaggio quando uscivano dal villaggio stesso per ovvie ragioni di sicurezza: le continue guerre e la caccia alle teste.
Bene e male, e altre dicotomie quotidiane: poveri e ricchi, normali e diversi.
La Cura non li farà fermare mai e l’Amore gli permetterà di sentirsi meno soli al mondo e superare la crudeltà del reale.
A volte mi sembra che l’essenza del margine e della vulnerabilità sia il non potersi raccontare ed è solo tramite la cura e la gentilezza che si può riuscire a dare loro una voce, un posto nel mondo in cui anche per loro c’è rappresentazione.
Ad Alma riscopro ogni giorno cura e vulnerabilità ed è proprio tramite questi valori che mi sento sempre più parte della comunità. La vulnerabilità, la dipendenza, il bisogno di cure sono tratti universali che ci rendono uguali.
Anche io ho bisogno costante di cura. In un certo senso, la cura ci ricorda e ci riporta all’essere figli. Siamo nati figli di qualcuno, frutto di una decisione in cui la nostra volontà non poteva ancora esserci; siamo nati esposti all’altro e siamo nati corpo. Dimensione, quella del corpo, a cui siamo tutti fortemente attaccati; dimensione che ci riconduce al bisogno costante di cura.
Cosa c’è alla base della cura se non la fiducia nell’essere umano e nel mondo inteso come rete di relazioni la cui sopravvivenza è messa in pericolo dall’incuria umana?
Cresciuti con la paura della dipendenza, dell’interdipendenza e del mostrarsi vulnerabili, in Occidente così come nella cultura tribale Nias, la società patriarcale vede nell’uomo forte, potente, sovrano e indipendente l’apice sociale. Con questa chiave di lettura non mi meraviglia più
È con gentilezza che le suore Alma dimostrano alle famiglie che il diritto alla cura e all’amore è universale. Un essere indipendente inevitabilmente cade nell’indifferenza. Essere capaci di sentire la nostra umana natura della dipendenza e dell’interdipendenza verso gli altri ci fa inclinare alla gentilezza. Penso che la consapevolezza dell’interdipendenza, del mutuo bisogno dell’altro è da considerarsi fondamento delle qualità umane e sociali.
Le suore, come madri; i bambini e i ragazzi, come fratelli e sorelle; i lavoratori di Alma, come zii e zie; e noi caschi bianchi, come sorelle lontane, siamo tutti indaffarati in questa incessante opera di cura e amore che regala speranza e fiducia.
In particolare, un ragazzo sordo di nome Okta mi stupisce per la cura che tutti i giorni dona agli altri, da quando si sveglia fino a quando va dormire. Lui è sempre occupato: si prende cura dei bambini più piccoli. Fa loro il bagnetto, scalda il latte, cambia i pannolini e si assicura che abbiano mangiato.
Ci aiuta con l’organizzazione pratica delle attività, ci porta sempre qualcosa da mangiare e ogni sera viene a darci la buona notte col suo modo super goffo ma anche estremamente dolce.
Ogni venerdì sera, alla serata film, Okta è sempre circondato da qualche bambino: qualcuno gli si addormenta in braccio, qualcun altro gli imbocca popcorn, e anche se è visibilmente infastidito sopporta in silenzio ma con amore. Nonostante Okta sia sordo e non riesca a parlare, nella gentilezza e nella cura ha trovato il suo linguaggio.
E allora credo che ringrazierò sempre tanto la comunità Alma di GunungSitoli tutta, perché mi fa vivere questa esperienza di cura, ogni giorno.
*Casco bianco in Indonesia
Aggiornato il 14/12/23 alle ore 13:40