I colori di Nias e le mani di Tulö
Il sole sorge alle sei e mezza, velocemente sale e alle sette e trenta è già altissimo, pronto, lì, a scottarti la pelle. A lasciarti dei segni. In quel lasso di tempo indefinibile, l’alba, avviene uno strano e magico gioco di luci i cui giocatori sono l’acqua del mare e il cielo con il sole che salta su. Il mondo qui a Nias diventa come una pellicola in bianco e nero: soprattutto il mare, forse perché sto lì a guardarlo.
L’Oceano Indiano con le sue possenti onde, durante questo indefinito momento, cinque minuti oppure un’ora, è bianco; le barchette che lo attraversano nei suoi punti più calmi appaiono nere, come l’ombra di quello che è stato ieri, è oggi e che sarà anche tra poco o domani, uguale, forse immutabile.
In questo momento speciale dove il passato e il futuro si perdono esiste quell’attimo in cui la forza vitale, la mia e quella che mi circonda, si fondono.
Nel frattempo, mentre io sono a riflettere su questo momento, dalla strada riaffiorano voci e rumori di auto e moto, il mare torna del suo blu intenso, il sole è giallo e forte e tutto ritorna, così come d’incanto, del suo normale colore e anche la vita sembra riprendere il suo normale e quotidiano ritmo. Sono proprio i colori che in questa piccola isola mi sembra vogliano esprimere tante emozioni.
Il sole è ormai salito in cielo e riscalda tutto: strada, mare, pelle e col suo giallo sembra voglia gridare qualcosa e rende tutti i colori così saturi che a volte si fa fatica a guardarli. È tutto sgargiante e il mio occhio riesce a notare soprattutto i contrasti: strade asfaltate male, grigie, in cui sono impresse le macchie rosse della betel nut appena sputata; case dipinte di verde acido o rosa che contrastano con il pelo ormai grigio sporco dei cani che vivono nei dintorni; bancarelle di pescatori rosse e blu e piccoli pesci argentati accanto a dei grandissimi pesci rossi.
Quando chiedo: «Che pesce è questo?», mi rispondono spesso: «È il pesce bianco o il pesce rosso». Anche quando chiedo delle verdure mi viene detto che c’è la verdura verde dolce e la verdura verde amara. Nessuna sofisticazione. Si riconosce dal colore.
È proprio sul verde e sul blu che mi sono fatta più domande. Quando abbiamo provato a insegnare i colori qui al Centro Alma (unico punto di riferimento dell’isola di Nias per quasi tutti i bambini con disabilità), la difficoltà più grande l’abbiamo riscontrata nel momento in cui si parlava del verde e del blu. E non me ne facevo capace, non capivo perché fosse così complicato. Ho scoperto che in tanti linguaggi il verde e il blu sono espressi tramite una sola parola a cui sono poi aggiunte delle sfumature linguistiche. Prima che l’indonesiano diventasse lingua nazionale nel 1928, anche nella lingua locale di Nias non esisteva questa differenza lessicale e ancora oggi i bambini fanno fatica a distinguerli.
A partire dai colori, mi sembra che tutto si esprima per contrasti e voglia gridare forte. Qui ho scoperto che anche il silenzio è un privilegio. Il silenzio appartiene a chi può permettersi una casa con mura spesse, aria condizionata e buone finestre. Il silenzio è ricchezza.
Tutto grida e tutto viene gridato, forte. E come tutto, anche il caos e il silenzio sono dominati dalla natura. Gli unici momenti in cui il silenzio arriva sono quando piove tanto: si rientra dentro e per me è un altro momento in cui riflettere è più facile, perché fa meno caldo del solito e il sole è dietro le nuvole.
Durante i tanti pomeriggi o serate di pioggia equatoriale ho pensato molto a quello che mi è accaduto e a quello che ho osservato mentre accadeva. E ho capito che Nias mi sta insegnando a ricercare quell’attimo in cui non ricerco il tempo eppure sono così presente.
È con la consapevolezza di quell’attimo che riesco a dare tanto valore a degli attimi che altrimenti potrebbero facilmente passare sott’occhio. È con questa consapevolezza che tocco le mani di Fatulö, per tutti Tulö. Viene da uno dei pochi luoghi turistici qui a Nias, Teluk Dalam. È qui ad Alma da un bel po’, ha perso suo padre e solo una volta sua sorella maggiore è venuta a fargli visita. Fatulö non parla e non è autosufficiente.
Viene a salutarmi toccandomi le mani, molto delicatamente e solo con la punta delle dita. Mi è capitato vederlo raccogliere delle magliette con la punta delle dita e tenere in mano le posate, ovviamente, con la punta delle dita. Questo suo comportamento fa simpatia a tutti. Anche quando è arrabbiato e prova a lanciare uno schiaffo a qualcuno che lo ha infastidito, lo fa, ovviamente, solo con la punta delle dita.
Un’altra caratteristica di Tulö è il suo sguardo, molto timido, come lui. Se lo guardi negli occhi si intimidisce e distoglie lo sguardo.
Ed è dal contatto con lui e dal valore che gli occhi di Tulö comunicano in quel leggerissimo momento che ho iniziato a pensare a cosa succede quando due mani si sfiorano. C’è calore, presenza, contatto e vicinanza. Così vicini da entrare in contatto con l’altro come fossimo noi stessi. Non potrebbe essere possibile che entrando in contatto con l’altro si entri in contatto con un’infinità di corpi, spazi e tempi insieme? Sento che un tocco risveglia Tulö da sé stesso, lo avvicina a sé stesso ma anche agli altri. È dai suoi occhi che lo si capisce. Allora mi chiedo: tocchiamo l’altro per conoscerlo o per conoscere noi stessi?
Per mesi mi sono chiesta che cosa stessi facendo qui, dove tutto scorre lento e la mia testa gira veloce. Mi interrogavo sul tempo, il mio, e lo quantificavo. Ho capito dopo quasi otto mesi che non posso e non potrò quantificare il valore di questa esperienza proprio perché è speciale. Alcuni giorni sembrano infiniti, sempre lo stesso lungo e caldo giorno; altri scorrono rapidamente mentre provo a entrare in contatto con tutte queste sensibilità.
Forse ero anch’io alla ricerca di questo contatto se sono arrivata fino a qui ed è proprio tramite questo contatto fisico che mi sono avvicinata a me stessa.
*Casco bianco in Indonesia
Aggiornato il 09/02/24 alle ore 12:02