Strumento di comunità per tutti i Sud del mondo
Prendiamo la Somalia, con le sue radio comunitarie che trasmettono programmi per i villaggi agricoli su nutrizione, uso ottimale delle risorse naturali e dei pesticidi. E il contributo dato all’interno di un progetto di costruzione della pace tra due comunità che si contendevano l’uso dell’acqua: un radiodramma realizzato dai ragazzi delle due stesse comunità, che ha riaperto un dialogo, ricordando a tutti l’ovvio che ovvio non è mai: cooperare è molto meglio che essere in conflitto.
Ecco, gli auguri per la Giornata mondiale della Radio, istituita dall’Unesco e celebrata dal 2012 ogni 13 febbraio, e per i primi 100 anni della radio (1924-2024), li facciamo a partire proprio dalla Somalia. Paradossalmente, aggiungiamo, ma neanche tanto, perché proprio oggi che la radio ha perso la sua fisicità, che è interstiziale, entra ovunque, nei cellulari, Pc, tablet, tv, … Oggi che è pura essenza, noi vogliamo prestare ascolto a esperienze in cui la radio ha bisogno ancora del suo supporto fisico. E si rivela uno strumento necessario. Esperienze che Francesco Diasio racconta nel libro “Etere. Storie di radio, antenne e frequenze dal mondo” (ed. Altreconomia). Diasio è specialista di comunicazione per lo sviluppo alla FAO. In questi anni ha avviato radio comunitarie in giro per il mondo: da Haiti alla Tunisia, dalla Repubblica Democratica del Congo alla Serbia, dalla Palestina al Kurdistan.
Leggi la prefazione: “In missione per conto della radio” di Marino Sinibaldi
La radio compie cento anni. Tante cose sono cambiate, ma la sua funzione è rimasta intatta.
«Non soltanto è rimasta intatta, ma è in fase di espansione. Le persone un po’ più grandi ricordano le case dei nonni con quelle grandi radio dove non c’erano scritte le frequenze, ma i nomi delle città: Buenos Aires, Berlino, Addis Abeba, New York… Ecco, quelle erano le trasmissioni in onde medie, con trasmettitori enormi, sistemi di antenna potentissimi. Poi la radio è diventata le onde in FM, il podcast, lo streaming, il satellite, il DAB. La radio si espande e rimane ancora oggi uno degli strumenti più importanti. Per una semplice ragione: oggi più di altri media la radio è partecipazione. Permette la partecipazione piena degli ascoltatori, che si sentono legati da questo doppio filo. Non c’è altro strumento di comunicazione di massa che dia questa possibilità, chiaramente senza considerare le piattaforme dei cosiddetti social media, che non sono, secondo me, dei media veri e propri».
E se è sinonimo di partecipazione in Europa, possiamo immaginare l’importanza che assume nei Paesi del Sud del mondo.
«Certo. È uno strumento che con un paio di batterie può dare l’accesso a informazioni indispensabili per comunità di Paesi dove l’energia elettrica non c’è o è disponibile per poche ore al giorno, dove la penetrazione di Internet è ancora bassissima. Pensiamo all’enorme gap tra le aree urbane e le aree rurali più remote, dove Internet arriva con ancora maggiori difficoltà. E pensiamo a un altro gap: quello di genere. Se in una famiglia africana c’è uno smartphone, quel qualcuno al 90% sarà un uomo. In tutto questo la radio va oltre perché è uno strumento democratico, che si rivolge a tutti e che può essere ascoltato con un paio di batterie, anche nei villaggi più remoti».
Laddove vige la censura, Internet diventa rischioso. L’ascolto della radio, invece, resta… anonimo. Spesso queste radio sono temute dai governi.
«La radio tradizionale ha tre elementi principali: è gratuita, anonima e mobile. In Internet la connessione la paghiamo, fosse anche un centesimo. E non paghiamo soltanto noi utenti, ma anche chi trasmette. Perché più larga sarà la banda, e dunque più utenti allo stesso tempo possono avere accesso a quel segnale, più alta sarà la spesa. Per la radio, invece, con un trasmettitore si possono raggiungere una persona o un milione sempre allo stesso costo. Per quel che riguarda l’anonimato, sì, non possiamo sapere se all’ascolto di quella radio c’è Giuseppina, Mario o Luisa. In una radio Internet, invece, è possibile tracciare l’IP di ogni singolo utente e sapere chi ci sta ascoltando, da dove e per quanto tempo. In ultimo la mobilità: la radio, quella tradizionale, può essere mobile sempre – ricordiamo tutti le vecchie radio a transistor che ci mettevamo all’orecchio per sentire le partite di calcio la domenica – e nelle autovetture. La radio in Internet, invece, è mobile solo attraverso un sistema: i telefoni cellulari. Ed è per questo che le compagnie telefoniche sono affamate di frequenze. Vogliono far passare tutto tramite Internet, tanto che nei nuovi smartphone è sparita quella bellissima funzione dove si poteva ascoltare la radio in FM. I gestori di telefonia vogliono che anche la radio locale passi su Internet».
La vecchia radio a transistor resta un oggetto molto diffuso nei Paesi del Sud del mondo?. «Assolutamente. Per tantissimi progetti è anche prevista la distribuzione di questi ricevitori. Lì dove sappiamo che, ad esempio, c’è un campo profughi, dunque una situazione di emergenza e vogliamo far circolare delle informazioni, non soltanto ci si preoccupa di produrle e metterle in onda quelle informazioni, ma anche di farle ricevere, distribuendo le radioline. Che spesso possono funzionare anche senza le batterie, come le vecchie radio a manovella: si gira la manovella per due minuti e si ha abbastanza energia per ascoltare la radio per un bel po’. L’Unesco ha fatto di questo lavoro una delle attività di base nelle situazioni di emergenza».
La radio porta istruzione, sanità, educazione dove serve. Dà suggerimenti anche sull’uso oculato delle risorse da parte di una comunità, a volte pochissime.
«È quello di cui mi occupo proprio in questo periodo della mia vita lavorando come specialista internazionale di comunicazione per lo sviluppo, ovvero la comunicazione come elemento centrale dello sviluppo. Soprattutto in Somalia. Ne è un esempio il radiodramma per le comunità che si contendevano l’uso della poca, preziosa acqua, che ha contribuito a far ripartire il dialogo tra le due parti».
Quanti mondi ha conosciuto grazie a questo suo impegno?
«Tantissimi. Facendo questo lavoro comprendi appieno quanto la diversità sia una ricchezza. I mondi sono i più diversi perché le culture sono le più diverse. Ma c’è un obiettivo che accomuna queste emittenti in ogni punto del mondo: la coesione sociale. Il Parlamento europeo nel 2008 ha proposto una risoluzione riconoscendo proprio il ruolo di coesione sociale dei media comunitari. Possiamo definirli il Terzo settore dell’informazione. Si tratta di emittenti che non hanno fini di lucro, anche se ovviamente dispongono di un budget. E perseguono obiettivi diversi: educazione, peacebuilding, cercano di costruire comunità, rafforzare legami. Pensiamo a quanto possa essere importante proporre musica in un campo profughi a persone, appunto, fuggite da un conflitto».
Quali sono i principali tipi di emittenti nella galassia delle radio comunitarie?
«Sì, è un settore immenso, che va dalle radio confessionali a quelle di ambito politico, dalle radio campus a quelle rurali fino alle radio dei popoli sparsi nella foresta amazzonica. E qui è importante mettere in luce l’elemento del diritto alla comunicazione nella propria lingua. In Italia sembra un fatto scontato, ma in realtà non lo è perché le lingue ufficiali degli Stati sono ancora le ex lingue coloniali – il francese, l’inglese, il portoghese, lo spagnolo –, ma noi sappiamo che all’interno dei Paesi le lingue parlate sono altre. I popoli Mapuche, ad esempio, non parlano soltanto lo spagnolo, parlano anche e soprattutto le loro lingue native. Sono un tratto identitario fondamentale. E l’identità è la forza di queste emittenti».
La sua esperienza cosa dice alla celebrazione della Giornata mondiale e ai 100 anni di vita della radio?
«L’Unesco è impegnata in prima linea con il supporto ai media. Ha in essere addirittura un programma di democratizzazione dei media, con fondi elargiti a livello regionale e nazionale proprio per sostenere piccole emittenti. Dopo 100 anni la radio è ancora centrale. Non lo dimostrano soltanto le grandi agenzie delle Nazioni Unite, ma proprio la vitalità di queste emittenti, che spesso devono avere una fantasia incredibile per trovare i modi di sostenersi, ma che allo stesso tempo continuano ad andare in onda spesso con l’aiuto dei propri ascoltatori che si riconoscono in quella radio, se ne sentono parte».
Nel libro cita le radio confessionali che svolgono un lavoro laico. Niente proselitismo. Una Chiesa che ha a cuore le persone e le accompagna, le sostiene.
«Andando in giro per il mondo ci si rende conto che anche le radio confessionali in realtà sono diverse dal cliché che possiamo immaginare in Italia. Hanno una loro politica editoriale, ovviamente, ma svolgono un servizio di interesse pubblico. Sono radio fraterne, nel vero senso della parola, perché quando c’è un momento di crisi o di emergenza, i microfoni restano aperti anche per i colleghi che la pensano diversamente o hanno altri approcci. E diventano punto di riferimento, non soltanto per i loro ascoltatori ma anche proprio nel panorama dei media di quel Paese».
La radio è oralità. Indispensabile in Paesi dove il tasso di analfabetismo è ancora alto.
«Oralità e, come ripeto, nelle rispettive lingue. Parliamo di Paesi – faccio di nuovo l’esempio della Somalia – dove i tassi di alfabetizzazione sono di appena il 40% della popolazione. Per cui c’è un buon 60% che non sa né leggere né scrivere o che ha avuto accesso solo alla scuola primaria. E poi c’è un altro tipo di alfabetizzazione: quella tecnica. C’è chi non sa usare uno smartphone, un Pc. Mentre la radio la sanno accendere tutti. E se anche si ha accesso a Internet, dove il 90% delle cose sono scritte in inglese, purtroppo l’alfabetizzazione serve a poco».
Sulla pagina dedicata al World Radio Day 2024 del sito dell’Unesco, si ricorda il valore della radio in diverse situazioni. Come durante le emergenze e le interruzioni di corrente causate da disastri naturali e dall’uomo. A quali Paesi visitati questo la fa pensare?
«Sicuramente ad Haiti dopo il terremoto, le radio in Asia dopo gli tsunami, le radio in Somalia che attualmente svolgono un ruolo centrale anche di pacificazione delle emergenze, parliamo di inondazioni, di siccità, di guerre. In tutte le situazioni di emergenze naturali, di conflitto e post-conflitto, nelle transizioni democratiche la radio gioca un ruolo fondamentale».
Ancora l’Unesco nel proprio sito ribadisce il valore democratico della radio all’interno di gruppi svantaggiati, tra cui le persone immigrati, le minoranze e le popolazioni colpite dalla povertà, …
«Mi viene in mente quella fantastica esperienza della radio che abbiamo avviato nel campo profughi del Kurdistan iracheno, vicino a Sulaymaniyah, non distante dalla frontiera con l’Iran, che ospita 200 mila persone. Una piccola radio all’interno del campo ha favorito il dialogo tra tutte le diverse etnie dei rifugiati».
Marino Sinibaldi, amatissimo ex-direttore di Radiotre, nella prefazione al suo libro “Etere. Storie di radio, antenne e frequenze dal mondo” scrive che per lei “ogni radio è occasione di un incontro, di esperienza dei luoghi, di una conoscenza che diventa spesso amicizia profonda”. La radio prima della radio è la ricchezza delle esperienze di Francesco Diasio.
«Mettere su un emittente, quel lavoro che viene svolto tecnicamente come supporto ai giornalisti, è l’ultimo pezzettino di un lavoro che in realtà comincia molto prima, con il dialogo, le partnership, l’identificazione dei bisogni di comunicazione, la conoscenza delle culture, la capacità di mettere insieme una proposta che possa essere finanziata e avere dei risultati concreti. Tutto questo scambio è alla base della radio. Quella è già radio prima ancora che ci sia la radio».
Nell’ultimo capitolo del libro azzarda una previsione. La radio ha lunga vita?
«Secondo me sì. La radio ha lunga vita, si sta moltiplicando. Il passaggio al digitale terrestre, al DAB allarga il perimetro della libertà di espressione perché ci saranno più possibilità di accesso. Ora siamo in una fase di transizione, che va gestita bene, perché i grandi gruppi commerciali stanno già moltiplicando i loro canali e le radio piccole, locali e comunitarie devono cominciare ad aprire gli occhi e pensare di avere accesso a questi nuovi standard di comunicazione. Non soltanto le emittanti che già erano in FM, ma anche esperienze completamente nuove, che ora hanno la possibilità di andare in onda».
Archivio rubrica “Villaggio globale”
Aggiornato il 13/02/24 alle ore 20:43