A passo lento
Don Otello Bisetto | Foto sopra: Alessio Garofalo
La via del Vangelo va percorsa lentamente. Per non farsi sfuggire nulla. E infatti c’è chi la attraversa in bicicletta. Da sempre. Don Otello Bisetti si spostava sulle due ruote quando era in Congo, poi in Tunisia, ancora a Mazara del Vallo e oggi, tornato nella sua Treviso, compie in bici il tragitto casa – carcere minorile. 64 anni e non sentirli, don Otello in sella ha scoperto territori e conosciuto persone. La via del Vangelo, al 44° Convegno nazionale delle Caritas diocesane, ce l’ha raccontata lui. La sua, certo. Le sue. Con tutti quegli incontri che gli hanno riempito l’anima.
Don Otello, le abbiamo chiesto una frase che ci accompagnasse in questo Convegno e che i 600 partecipanti hanno trovato nel dépliant. Recita così: «Il Vangelo mi aiuta a guardare i giovani con la stessa passione di Gesù. Sento che hanno bisogno di sentirsi amati più che giudicati».
«Fa parte del mio percorso. Le esperienze precedenti al carcere minorile mi hanno convinto che la prima cosa è lo sguardo, il modo in cui vedo le persone che incontro. Necessario tentare lo stesso sguardo di Gesù. Per farlo basta aprire il Vangelo, capire come fa lui e cercare umilmente di imitarlo».
Papa Francesco chiede alla Caritas di avere, sulle tre vie consegnate in occasione dei 50 anni di Caritas Italiana, un’attenzione particolare ai giovani. Lei è cappellano del carcere minorile di Treviso. Cosa chiedono questi “suoi” giovani?
«Chiedono di non essere giudicati, ma amati. Di essere accettati anche per i loro difetti e soprattutto di essere ascoltati, senza pregiudizi».
Lei cosa chiede a loro?
«Sincerità e rispetto. Che sanno dare. Non è la condizione di detenuti che impedisce loro di essere gentili, educati. Assolutamente no. Anzi, ho visto in molti casi più rispetto in questi ambiti che in altri».
Cosa piacerebbe loro far sapere alla comunità fuori?
«Che dietro c’è una sofferenza, che hanno vissuto e stanno ancora vivendo. Sono sofferenze radicate. Hanno bisogno di fidarsi. E di qualcuno che si fidi di loro».
Perché la Caritas ha cercato lei per parlare della via del Vangelo?
«Prima di incontrare le persone devi conoscere Gesù e poi riuscirai a vedere nelle persone il Gesù che cerchi di conoscere. Al contrario non è possibile. Il povero ti importuna, ti respinge – per povero intendo anche il carcerato. Ha tutto per non farsi amare, ha tutto per essere colui che “meglio lasciar perdere”. È proprio perché ci vedo Gesù che sono invitato a superare quelle barriere che automaticamente metto fra me e chi è al margine della società».
Una cosa che sente l’urgenza di comunicare nel suo intervento al Convegno?
«Rendere più umane le cose che facciamo. A volte scadiamo nel tentativo di organizzare, burocratizzare tutto, di rendere tutto definito, inquadrato, inscatolato. E questa non è una dinamica evangelica, che è una dinamica aperta, dove ti lasci anche portar fuori, tipo: avevo previsto una cosa invece ne è nata un’altra. Vorrei comunicare questo: lasciamoci sorprendere dal Vangelo».
La via del Vangelo l’ha portata lontano, in missione in Africa. Però la via del Vangelo – e la sua storia ce lo ricorda – può anche essere quella che passa sotto casa. Perché ha sentito l’esigenza di muoversi?
«È stato un sacerdote a chiedermi di andare. Io non volevo all’inizio. Partire per il Congo per me ha significato decentrarmi, un po’ quello che fa il Vangelo: ci si deve decentrare per capire che tu non sei l’unico, che ci sono anche gli altri. E che non sarai mai felice se non con gli altri».
Nella sua città, Treviso, lei ha conosciuto e operato con la Caritas. Che cosa porta di quegli anni?
«Io sono stato operatore Caritas dall’89 al ’96. Ero appena tornato dal Congo, dove ero rimasto quattro anni. Nel Paese africano ho scoperto quanto sia importante radicarsi nel Vangelo per poter aprire gli occhi e vedere le cose diversamente. Tornato in Italia, ho iniziato a lavorare come geometra. A quel punto un sacerdote mi ha coinvolto per ristrutturare un’ex canonica diroccata che avrebbe ospitato persone migranti. Risultato: sono diventato l’operatore di quella casa. Sono stati anni carichi di emozioni perché era il periodo in cui accoglievamo i clandestini. Accoglienza pura. La Provvidenza ogni giorno. La comunità ci aiutava. Dimostravamo che il Vangelo si vive quotidianamente, aprendo la porta e dando un letto a chi ne ha bisogno. Anni importanti, perché hanno suscitato in me anche la curiosità di capire, di conoscere, di imparare».
Da Treviso ancora in Africa, questa volta in Tunisia, dove è stato anche incardinato sacerdote.
«Dopo gli anni con la Caritas di Treviso e tutta la curiosità che quell’esperienza aveva risvegliato in me, sentivo la necessità di approfondire. Allora sono partito per il Sud della Tunisia dove ho fatto volontariato due anni con le persone disabili. Era il 1998. Occuparsi di ragazzi disabili che le famiglie nascondevano, perché costituivano una vergogna, è stato terribile. Ma anche bellissimo portarli fuori, al mare, al parco pubblico e vederli trovare una certa normalità, come la ritrovavano anche le famiglie, soprattutto le mamme. Che ci chiedevano – perché non ero da solo, ovviamente –: “Ma voi perché lo fate? Io non lo avrei mai fatto!”: Mi veniva spontaneo dire: “Io lo faccio perché ho Gesù”. E il rispetto da parte del musulmano aumentava. Non è che se parli loro di Gesù sono infastiditi. Sanno benissimo chi è Gesù, non è un problema».
Non era ancora sacerdote, però ci pensava da tempo.
«Sì, ci pensavo da molto prima. Pensi che quando lavoravo come geometra, prima del Congo, e andavo nei cantieri, mi infastidiva il linguaggio non proprio forbito che utilizzavano gli operai. Spesso le bestemmie erano un intercalare, ma anche i discorsi che facevano non è che mi piacessero molto. Allora rimproveravo gli operai, chiedevo loro di utilizzare un linguaggio consono. E loro mi chiamavano “chierichetto”. “Ecco, arriva il chierichetto!”. Avevano già capito quando ancora io non ci pensavo. È stato proprio nei primi due anni in Tunisia che il vescovo mi ha detto: “Ma tu hai tutto per essere prete. Perché non ci provi?”. Allora ho compiuto i miei studi in Francia, sono diventato sacerdote nel 2004 per poi tornare in Tunisia. In seguito ho vissuto in Sicilia, una parrocchia di un quartiere periferico di Mazara del Vallo, ancora con i tunisini».
E nel 2017 di nuovo nella sua Treviso con i ragazzi del carcere minorile. Papa Francesco, nel discorso alla Caritas per il cinquantesimo di Caritas Italiana, ha detto: «Lo stile di Dio è lo stile della prossimità, della compassione e della tenerezza». Anche il suo, don Otello?
«Le parole del Papa sono la chiave di tutto. Quei minori già per il fatto che sono in carcere vengono criticati. Il sistema li giudica, li mette in una casella. Il sistema carcerario in Italia è un luogo allucinante dal punto di vista umano. Io li chiamo per nome. Non mi interessa cosa hanno fatto, mi interessa se stanno bene, se hanno contatti con la famiglia. Un’attenzione che loro sentono. Prossimità, compassione e tenerezza sono necessarie per tirare fuori questi minorenni da una situazione che a loro sembra senza via d’uscita. Hanno bisogno di sentire che qualcuno che li veda come soggetti da amare. Devono sentire che non sono esclusi da niente. Né tantomeno dalla Misericordia del Signore. Non sono il reato che hanno commesso».
La libertà è necessaria per proporre il Vangelo?
«Io faccio per te quello che entrambi pensiamo sia giusto senza legarti in alcun modo. Voglio che tu sia libero. I ragazzi che mi chiedono: “Quando esco, dove posso trovarti per venire a ringraziarti?”. E io: “Vai per la tua strada e sappi che l’unico modo per ringraziarmi è fare qualcosa di buono a qualcuno che incontrerai. Riproduci quello che hai vissuto su te stesso grazie alle persone che ti hanno voluto bene. Ne troverai a bizzeffe di persone che hanno bisogno. E che hanno bisogno del tuo sorriso, del tuo saluto. Basta poco per rendere felice qualcuno».
Il convegno ha al centro il tema del confine. C’è un confine da attraversare prima di percorrere la via del Vangelo?
«Il pregiudizio. Per entrare in un istituto penale devo varcare sei porte, che se non ti aprono non entri. Questo dà la misura del pregiudizio. Più porte metti tra te e l’altro, tra te e il povero, tra te e chi la pensa diversamente, più è grande il tuo pregiudizio nei suoi confronti. Entrando in carcere cerco di annullare la distanza siderale rappresentata dalle porte. Il Vangelo mi aiuta».
La via del Vangelo va percorsa a passo lento?
«Se si può, sì, per non perdere niente di quello che troviamo. La via del Vangelo va esplorata completamente. Anche le parti più dure. Soprattutto le parti più dure. Mi piace raccontare del mio primo anno in bicicletta in Congo, passato a guardarmi intorno, a conoscere la gente e i luoghi. E a guardarmi dentro. La bicicletta aiuta. La uso sempre ma durante il periodo congolese in modo particolare. Con la bici ti puoi fermare quando vuoi, con la bici penetri i luoghi che attraversi e procedi a una velocità tale che puoi comunque raggiungere posti diversi nel corso della stessa giornata. Sì, la via del Vangelo va percorsa a passo lento».