02 Agosto 2024

Giustizia riparativa, occasione per tutti

La Caritas diocesana di Prato è una delle otto Caritas coinvolte nel progetto sperimentale. Qui racconta le attività di sensibilizzazione con la comunità, le scuole, le persone detenute

Tra punti fermi e desideri. Prima i punti fermi: la giustizia riparativa, a differenza di quella penale, che segue una logica punitiva, si concentra su come il danno causato possa essere riparato. Coinvolgendo tutti coloro che con questo reato hanno in qualche modo a che fare: autore, vittima, comunità. È dunque anche un’occasione di ricostruzione o rafforzamento di comunità. Per questo dai punti fermi ai desideri il passo è breve: il desiderio di Carlotta Letizia, Caritas diocesana di Prato, è che Caritas prenda in considerazione, come Centro di Ascolto o come, ad esempio, Emporio della Solidarietà, uno spazio di giustizia riparativa, «dove le persone – auspica Carlotta – possano arrivare e dire: conosciamo questa modalità, sappiamo che può aiutarci. Vogliamo provarla».

Un desiderio che mette a sistema la suggestione di don Marco Pagniello, direttore di Caritas Italiana, lanciata nel corso del Convegno sulla Giustizia riparativa, a Roma lo scorso mese di giugno. «Se la giustizia riparativa è un paradigma – ha indicato don Marco –, dobbiamo diffonderla sempre più all’interno delle azioni delle Caritas diocesane. Sempre più questo paradigma deve contaminare e lasciarsi contaminare da quello che già vediamo nei vari ambiti che Caritas porta avanti».

… PER LA COMUNITÀ

Aspettando che la giustizia riparativa diventi uno stile o almeno “conquisti” spazi, Carlotta, con don Enzo Pacini, direttore di Caritas Prato, continuano a puntare su formazione e sensibilizzazione. In un territorio che, come molti altri, non conosceva la giustizia riparativa fino a poco tempo fa. Carlotta sì: una laurea in Giurisprudenza e successivamente un percorso di formazione in mediazione familiare, penale e scolastica. «Con Caritas ho scoperto l’ambito comunitario, non contemplato nella formazione che ho seguito. Però il corso ti prepara ad ascoltare e metterti di fronte alle emozioni delle persone. Che queste siano due o dieci, sotto quel punto di vista non cambia. E infatti quando ho iniziato in Caritas il percorso di giustizia riparativa ho contestualmente svolto servizio volontario presso il Centro di Ascolto. Da lì mi hanno offerto di lavorare come operatrice di strada con le persone senza dimora: gli strumenti che ho appreso per diventare mediatrice li posso utilizzare in modo trasversale a tutti gli incarichi di lavoro».

Quegli strumenti della giustizia riparativa, che vorrebbero trovare applicazione nella violazione dei reati, si applicano a tutti gli ambiti in cui sono presenti dei conflitti.

Caritas Prato ha iniziato con le parrocchie. Erano cinque e nel giro di poco tempo sono diventate nove. In una di queste parrocchie, dopo un primo percorso, hanno ringraziato perché «ci è stato dato uno spazio di parola». Ecco, di questo si tratta. Ma all’inizio non è mai facile. Si propone questo nuovo approccio, come nel caso di Caritas Prato, si spiega cos’è, si chiarisce che incontra un bisogno, però questo bisogno non viene fuori automaticamente, magari le persone non sanno neanche di averlo finché qualcuno non li stimola. «Allora facciamo la domanda: avete subito un danno? – prosegue Carlotta Letizia –. E le persone rispondono di sì, dicono che effettivamente hanno bisogno di essere ascoltate, che forse hanno bisogno di incontrare qualcuno. Ecco dunque che il modo di avvicinare la comunità è quello di andare a chiederle di cosa ha bisogno. Qualcuno può rispondere che non vuole riaprire ciò che ritiene chiusa, con altri invece interveniamo».

Come? «Gli strumenti sono tanti. Stiamo applicando, ad esempio, il circolo riparativo con una comunità che ha subito un danno. Gli si dà uno spazio di ascolto e di parola. Noi facilitiamo il dialogo ma una volta posta la domanda si autogestiscono. La nostra idea è proprio questa: aprire un dialogo e rendere le persone indipendenti. L’empowerment della giustizia riparativa è lo stesso che caratterizza Caritas: ti do degli strumenti e tu cammini sulle tue gambe».

Poi arriva quel giorno in cui la richiesta è davvero grande ma si deve osare. Un gruppo di dieci persone di una parrocchia, particolarmente ferite, chiedono aiuto.

«Il danno subito è grave e la situazione ancora in corso, anzi, ogni volta che si incontrano c’è qualcosa di nuovo. Dunque, dieci persone con dieci modi di vivere il danno e la propria sofferenza per una serie di incontri che preludono a un incontro riparativo tra loro e chi li ha danneggiati, quest’ultimo esterno al gruppo. La nostra preoccupazione è la seguente: saremo in grado di affrontare le richieste? In fondo siamo solo agli inizi. Però è anche vero che la giustizia riparativa non deve per forza dare delle risposte. Non è detto che l’incontro avverrà. Il nostro compito in quel caso consiste nell’affrontare la delusione dei danneggiati. Che comunque avranno riflettuto su quanto accaduto e sulla loro condizione. Nostra cura è che nessuno arrivi impreparato a questi incontri, quindi ci piacerebbe sensibilizzare il più possibile e far capire che può succedere a tutti di danneggiare ed essere danneggiati. Ma che c’è una porta che si può aprire».

Qualche esempio? «Sono disattento in macchina, urto qualcuno sulle strisce e non posso più vederlo, contattarlo. È successo nel mio paese: un signore ha investito una ragazzina sulle strisce, tra l’altro di una nazionalità diversa, quindi c’erano anche problemi di comunicazione, differenze culturali. La bambina non è stata bene per un po’, ma poi ha recuperato. Questo signore vuole parlare con lei e la famiglia per scusarsi, fuori dal tribunale. Non è facile. Dunque, sapere che da un episodio del genere non si arrivi solo a una risposta punitiva, ma che c’è anche la possibilità di fare incontrare le persone mi sembra importante. Potrei portare mille altri casi: un litigio tra due vicini di casa, i proprietari di un complesso di villette a schiera che arrivano a non parlarsi più per la spazzatura. Siamo tutti a rischio perché le relazioni possono portare al conflitto e il conflitto la maggior parte delle volte causa la rottura di una relazione o un’escalation violenta. Invece può rivelarsi anche un’occasione».

Da sinistra: Carlotta Letizia, don Enzo Pacini e Laura Gison

… PER LA SCUOLA

L’ha percepita da subito come tale, un’occasione, Laura Gison, docente di matematica e Fisica presso il Liceo Scientifico “N. Copernico” di Prato. Aveva già letto qualcosa sulla riforma Cartabia, che ha introdotto in Italia la giustizia riparativa, e appena è venuta a conoscenza che la Caritas di Prato si stava muovendo in questo ambito, li ha contattati. Subito dopo ha presentato il progetto alla scuola, al consiglio di classe, che ha accettato senza riserva alcuna. «Devo premettere – confessa la professoressa Gison – che a muovermi è stata anche una mia curiosità personale, perché è un tema che mi interessa davvero tanto, ma ho fatto questa proposta alla scuola soprattutto perché in una classe si stava vivendo una situazione conflittuale che, partita da due persone, come un’onda ha finito per coinvolgere tutte le ragazze e i ragazzi, a spaccare in due fazioni la classe. Questo mina anche la didattica.

Volevo darmi e dare loro la possibilità di guardare al conflitto in modo diverso, di metterci in discussione e condividere.

Non sono abituati a farlo: spesso vivono le proprie conflittualità da soli e quando arrivano all’estremo si rivolgono alla famiglia che poi magari li delega a uno psicologo. Sono poco abituati a confrontarsi, a buttare fuori quello che sentono».

Carlotta e don Enzo, direttore della Caritas di Prato, hanno incontrato i ragazzi in classe attraverso un laboratorio di otto ore, al quale ha partecipato anche la Gison. Anzi, Laura. «Sì, in quel caso non ero la professoressa. E quando è stato chiesto cosa fosse la giustizia, come ciascuno si ponga davanti alla giustizia, ho risposto anche io. Così come alla domanda: qual è il superpotere che vorresti? Mi hanno visto in una veste diversa». E i ragazzi hanno iniziato ad aprirsi? «Tanto – continua la Gison –. Anzitutto ci ha aiutato la disposizione in cerchio, che consente di essere tutti allo stesso livello, tutti equidistanti dal centro. Non ci sono ruoli. Persone mai intervenute nei momenti in cui in classe parliamo, si sono sentite a proprio agio e hanno detto la loro. Certo, sono stati facilitati dalla mediatrice, Carlotta, e da don Enzo. Questa giustizia riparativa, che ci fa in ogni caso pensare a un risvolto positivo delle cose, anche se non per forza risolutivo, ha aperto uno squarcio, ha dato loro la voglia di guardarsi dentro e intorno in modo diverso».

Resta da capire se i ragazzi della classe abbiano poi continuato a dialogare. Ancora Laura Gison: «Diciamo che da una separazione netta, da un disagio totale e molto evidente, le due persone protagoniste hanno iniziato a fare un percorso, a convivere con maggiore serenità. E questo per me è fondamentale. Non c’è stata ancora una vera e propria riparazione, ma non ci si può neanche aspettare che avvenga in poco tempo, però c’è una disponibilità all’incontro. E poi il punto non è solo questo.

Accade che continuano a riflettere su alcune dinamiche rielaborate nel corso del laboratorio, a usarle in qualche modo come metro di misura anche per le situazioni che vivono fuori.

E poi Carlotta e don Enzo ci hanno lasciato tanto materiale, che in classe riprendiamo spesso, riutilizziamo. Insomma, si va oltre le otto ore canoniche del laboratorio. Addirittura i ragazzi hanno prodotto dei lavori per la Giornata cittadina della Giustizia riparativa che la Caritas ha organizzato per sensibilizzare, informare. Non potevo essere più soddisfatta di quanto accaduto. Il lavoro da fare è tanto, ma l’abbrivio è stato dato».

… PER LE PERSONE DETENUTE

Dalla violazione dei reati si è partiti e lì si torna. Perché don Enzo Pacini, direttore della Caritas diocesana di Prato, è cappellano della Dogaia, la casa circondariale di Prato. Quando nel 2022 ha aggiunto a questa sua missione tra le persone detenute la direzione della Caritas, le cose si sono incastrate bene, perché nel frattempo è partito il progetto sperimentale sulla giustizia riparativa con Caritas Italiana e le altre Caritas diocesane. Don Enzo: «Abbiamo di recente organizzato un breve percorso di formazione con il personale del carcere, educatori, professori che insegnano in carcere, l’infermiera che coordina l’area sanitaria, altre due cooperative che fanno inserimenti. Ne stiamo preparando altri. E poi c’è l’ipotesi di un primo laboratorio, non necessariamente su tematiche specifiche collegate a ciascuno di loro, ma più in generale sul tema della giustizia riparativa».

Si tratterà dunque di creare un “clima riparativo”? «Sì, perché corrisponderebbe a un cambiamento di sguardo, di mentalità, importante per chi ha commesso qualsiasi tipo di reato:

ti porta a renderti conto che la responsabilità non è solo nei confronti di una legge violata, di una norma, ma che si tratta soprattutto di un danno commesso, di una o più relazioni che a causa di questo reato si sono interrotte».

Insomma, l’augurio di don Marco Pagniello che la giustizia riparativa diventi un paradigma è ora più chiaro.

Le ultime parole le lasciamo a don Enzo. Che le trova pescando tra le recenti esperienze in carcere. «Una volta, dopo la celebrazione di una Messa nell’istituto di pena di Prato, una persona mi ha avvicinato e mi ha chiesto: “Come posso fare qualcosa per la persona che ho ucciso, per la sua memoria?”. E io: per la persona che hai ucciso non puoi fare niente, però puoi iniziare a dire a te stesso che non puoi essere bloccato in eterno su questa cosa. Non è chiaramente possibile tornare indietro, però potresti fare qualcosa per riallacciarti alla vita, magari alle persone che hai fatto soffrire, i familiari. Questa giustizia riparativa è una strada ricca di promesse».

Aggiornato il 02/08/24 alle ore 15:49