Il “nostro” Cammino di Santiago
I ragazzi del progetto “Mi sta a cuore” sul Cammino di Santiago. Da sinistra: Asia Re, Miriam Pintus e Alessio Garofalo
C’è stato un tempo lontano in cui l’unica ragione per intraprendere il Cammino di Santiago era di matrice espiatoria. Già intorno al XVI secolo, i pellegrini religiosi che provavano a ripercorrere il tragitto che, dalle molteplici strade della Galizia, conduceva alla tomba dell’apostolo Giacomo, erano praticamente scomparsi, sostituiti da chi si avventurava sulle stesse vie per fare penitenza. Non era raro, infatti, che i tribunali condannassero coloro che si macchiavano dei cosiddetti “peccati gravissimi” a intraprendere lo stesso percorso compiuto secoli prima da discepoli e amici di San Giacomo, dopo la sua decapitazione in Palestina, per seppellire il corpo nell’ultimo avamposto di mondo conosciuto, in quella stessa regione che lui aveva visitato in lungo e in largo pregando ed evangelizzando. Sfuggendo alle insidie naturali e ai predoni, facendosi forza nonostante la fame e i molteplici impedimenti fisici, i peccatori dovevano raggiungere le fredde spiagge bagnate dall’Oceano Atlantico, raccogliere una delle conchiglie che affollavano la sabbia dorata e riportarla indietro, a testimoniare l’effettivo compimento del viaggio di contrizione.
L’esperienza era talmente difficile e faticosa che molti morivano per strada, senza mai più fare ritorno alla casa natìa. Molti altri, magari di buona famiglia, preferivano invece pagare un servitore o qualche abitante dei bassifondi perché si recasse a espiare la pena al posto loro, consegnandogli metà della somma pattuita prima della partenza e l’altra metà soltanto in seguito a un eventuale ritorno, che generalmente avveniva dopo mesi. Mesi di stenti, di fatiche, di ricerca di strade all’epoca non ancora tappezzate di frecce gialle e di colonnine che segnano i chilometri mancanti. Mesi di paura, apprensione, morte.
Mesi che, anche qualora la meta finale fosse stata raggiunta, non presupponevano affatto un tranquillo ritorno a casa, ma soltanto una strada che ricominciava in senso inverso, probabilmente dopo la convalescenza per chi riusciva a sopravvivere, trascorsa in uno dei grandi ospedali di cui la città era piena. Mesi, magari anni, alla fine dei quali forse ci si interrogava sul senso di tutto questo, o forse no. Probabilmente bastavano i soldi ricevuti o la pena revocata per dimenticare le strade della Galizia, il mistero a cui conducono.
Che si tratti di motivazioni culturali, sportive, escursionistiche o religiose, ogni pellegrino che decide di impiegare parte del suo tempo avventurandosi sugli stessi sentieri ha sicuramente compiuto una scelta pregressa. C’è chi ha atteso questo momento da tutta la vita, chi invece ha guardato un documentario o letto il libro di Paulo Coelho ed è partito. E allora tutte le strade si riempiono di camminanti, di incontri, di creazione di vincoli.
A farci interrogare sulla questione è don Fabio Pallotta, uno dei sei sacerdoti dell’ordine dei Padri Guanelliani che, insieme a numerosi volontari disseminati lungo le strade del Cammino o presso i siti in cui apporre il timbro, si occupa di accogliere i pellegrini arrivati a Santiago da ogni parte del mondo e in qualsiasi periodo dell’anno. Seduto insieme a noi nella chiesa di Santa Maria del Cammino, a Santiago, presso cui ogni pomeriggio viene celebrata una messa in italiano, ci racconta che la popolarità di cui il pellegrinaggio godeva in epoca medievale è stata riacquisita soltanto alla fine degli anni Ottanta, in seguito alla sua proclamazione come primo “itinerario culturale europeo” e, soprattutto, alla Giornata Mondiale della Gioventù del 1989, che papa Giovanni Paolo II volle istituire proprio in questi luoghi, raggiunti per l’occasione a piedi da moltissimi dei giovani partecipanti.
Ad oggi, il Cammino di Santiago è il più famoso itinerario percorribile a piedi; molti altri sono venuti fuori in tutto il resto d’Europa, prima curati solo da piccole associazioni locali, poi anche dagli enti ministeriali, che ne hanno apprezzato sempre di più le finalità culturali, turistiche e salutari. Per non parlare poi dell’immenso merchandising che, anno dopo anno, mette in circolo libri, prodotti mediali e capi d’abbigliamento sportivi, sgargianti di conchiglie e frecce gialle, oltre a veicolare un immaginario collettivo di vita rurale, timbri variopinti, pranzi frugali consumati lungo la strada e notti brevissime negli ostelli comuni, perché in Spagna i camminanti sono obbligati ad alzarsi molto prima del sole e del caldo.
Per coloro che apprezzano questo stile di vita, Santiago rappresenta la dimensione ideale.
Camminando si ritrova la tranquillità, la gioia dell’accontentarsi, i legami con la gente che incrocia il tuo andare. Ed è proprio qui che le parole di don Fabio tornano a risuonare. È davvero tutto qui? E se ci fosse un senso ancora più profondo?
Il Cammino di noi ragazzi del progetto “Mi sta a cuore” è cominciato il 27 agosto da Sarria, un piccolo borgo che sorge sulla Via Francese, l’ultimo paese in cui è possibile sostare e da cui partire per percorrere un numero di chilometri sufficiente a ottenere, alla fine, la “Compostelana”, il documento che certifica tutta la strada percorsa. Il progetto “Mi sta a cuore” ha avuto la possibilità di unirsi a ventiquattro giovani volontari di Caritas Spagna, che da tredici Diocesi dal nord al sud del Paese hanno deciso di intraprendere un percorso finalizzato non solo al raggiungimento della meta, ma soprattutto all’instaurazione di legami e relazioni reciproche, attraverso cui puntare all’innesco di processi di amicizia e potenziali collaborazioni in progetti interdiocesani.
In sei giorni abbiamo percorso 122 chilometri tra la Diocesi di Lugo e quella di Santiago, apponendo via via il sello di ogni nuova località che raggiungevamo sulla nostra carta del pellegrino. Dallo sterrato all’asfalto, da faticose salite a brusche discese, dai paesaggi brulli dell’entroterra ai freschissimi boschi pieni di foglie e rigagnoli da guadare su ponticelli di legno o pietra, abbiamo sin da subito potuto constatare empiricamente quanto ci stessimo muovendo, osservando il numero dei chilometri mancanti, segnato sulle colonnine direzionali del Cammino, decrescere passo dopo passo.
Abbiamo raggiunto Portomarín e l’immensa diga su cui sorge, poi Palas de Rei, il cui nome in lingua gallega ci ha ricordato l’antichità delle strade che stiamo percorrendo. È stata poi la volta di Melide, in cui abbiamo potuto gustare il tipico pulpo della Galizia e i pimientos de Padrón, piccoli e deliziosi peperoni tipici di questi luoghi; poi di Arzùa, in cui abbiamo deviato di qualche chilometro dal percorso originale per trascorrere la notte nella canonica di una minuscola contrada, quasi nascosta dai campi di granoturco. L’ultimo giorno di agosto siamo arrivati a O Pedrouzo, sosta finale prima dell’arrivo. Qui ci ha raggiunti anche Manuel Bretón, presidente di Caritas Spagna, che ha voluto percorrere gli ultimi chilometri insieme a noi.
Ogni sera, prima di cena, ragazzi e ragazze di tre o quattro Diocesi diverse si sono ritagliati un momento per raccontare al resto del gruppo del proprio ruolo da volontari e delle iniziative portate avanti presso le loro realtà, in una prospettiva di stimolo e mutuo scambio di idee e punti di vista. Anche numerose sedi locali, come le Caritas di Portomarín e di Melide, nonché diversi progetti attivi proprio a Santiago, hanno aperto le porte delle loro strutture, raccontandoci di cosa si occupano e il modo in cui provano a coinvolgere i giovani.
«La condivisione, il compartir vicendevole hanno rappresentato il pilastro fondamentale sul quale organizzare il senso stesso del campo» mi spiega Clara, che oltre a lavorare presso Caritas Spagna a Madrid, rappresenta anche i giovani del suo Paese in Caritas Internationalis. «Abbiamo cercato di fare in modo che la parte più importante del Cammino si costituisse nelle relazioni, facendo il possibile per evitare che stanchezza e dolori fisici prendessero il sopravvento sui nostri momenti per stare insieme».
Scopo dello staff, infatti, è stato anche quello di rendere l’esperienza fruibile e non troppo faticosa anche per coloro che non avessero mai affrontato un trekking di più giorni; i giovani in cammino hanno potuto contare su zainetti, borracce, felpe e magliette regalate dalla Caritas, oltre che su un furgone per trasportare snack e bevande per la pausa mattutina, nonché gli zaini pesanti e, all’occorrenza, i volontari troppo stanchi per andare avanti. Nonostante le agevolazioni, le più classiche e indesiderate tra i compagni di viaggio, che in spagnolo sono dette ampollas, hanno presto iniziato a manifestarsi sui piedi di molti di noi, rendendo di fatto ancora più completa la nostra esperienza.
Al dolore fisico. Alla stanchezza. Agli ostelli affollati di pellegrini, al sonno di poche ore in stanzoni pieni di letti. Ai tendini doloranti, alle vesciche. Alle spalle sempre più pesanti per chi, come me, ha scelto di camminare comunque con il proprio zaino, senza usufruire di quello piccolo. I giorni si susseguono tra una pausa e l’altra, le notti scorrono via al pensiero delle fatiche del giorno dopo, fino al punto da non notare quasi più che il numero di chilometri segnati sulle colonnine è sempre più esiguo, che le strade iniziano a riempirsi sempre più di gente in marcia. Ma l’eccitazione crescente no, quella non si può spegnere. Né tantomeno il senso di ricchezza interiore di cui, piano piano, ognuno di noi comincia a sentirsi pregno, mentre si guarda intorno e vede i propri sforzi fisici ripagati, i legami sempre più solidi mentre si cammina fianco a fianco e ci si sostiene a vicenda, raccontando vicendevolmente le nostre storie.
Forse è proprio questo a rendere speciali queste strade. Forse sarebbe impossibile fare scaturire la fiducia e la solidità del gruppo da una condivisione che non passi anche dalla cura reciproca delle ferite, della stanchezza, della paura di non farcela.
E così passa un giorno, poi un altro e altri ancora, ritrovando ogni mattina anche quelle persone che, pur non facendo parte del nostro nucleo, hanno organizzato il percorso nello stesso modo, entrando in relazione con loro, stupendoci di quante storie diverse possano condurre a Santiago dagli Stati Uniti, dall’Irlanda, dall’Italia. E, prima ancora di avere il tempo di rendersene conto, la città ci accoglie tra suoni di cornamuse, campane e pellegrini da ogni dove.
Percorriamo gli ultimi chilometri quasi in trance, senza più la consapevolezza di quali parti del corpo ci facciano male. Ed ecco infine la cattedrale, stagliata contro il cielo in tutta la sua magnificenza. C’è chi si abbraccia, chi si stende a terra, chi piange. C’è la tomba di San Giacomo, ci sono i nostri compagni, ci siamo anche noi, forse ancora inconsapevoli di quello che siamo riusciti a fare insieme, ancora ignari del fatto che, magari, il senso siamo riusciti a trovarlo, pur cercando tutt’altro. Che non è un caso che abbiamo seguito un itinerario uniti come fratelli da Roma a Santiago, da Santiago a Roma, congiungendo nella nostra strada le due città, sin dal Medioevo considerate tappe finali dei pellegrinaggi religiosi.
Il nostro cammino ha tracciato una linea da una tomba all’altra, le uniche due di cui si abbia assoluta certezza, di due apostoli che, millenni prima di noi e in terre lontane, hanno camminato per anni, seguendo un uomo che portava in giro la Parola da cui lui stesso si era incarnato. «Se voi avete fatto il Cammino di Santiago senza rendervi conto che qui c’è un amico di Gesù, uno che ha potuto guardarlo, parlare con lui, ogni vostro sforzo sarà stato inutile. Se nell’abbracciare la sua statua o fermarvi davanti alla sua tomba non proverete a pregare per chi vi ha fatto del male, a perdonarlo, a scaricare qui tutti i pesi e le fatiche che portate con voi, vi rimarrà soltanto la soddisfazione di un trekking e qualche souvenir. Ma questo posto è molto di più», dice don Fabio.
Siamo arrivati a Santiago di Compostela il primo settembre. È difficile associare alla fine di un percorso una data che, normalmente, simboleggia soprattutto nuovi inizi e nuove sfide da intraprendere. Eppure, stando qui, ci rendiamo conto immediatamente che anche noi siamo costretti a fermarci, a prenderci una pausa e capire cosa abbiamo imparato, per poi ripartire con ancora più forza nel giro di boa del nostro progetto in Caritas Italiana. Facendo leva sugli scambi creati e i legami costituiti, ognuno dei giovani volontari coinvolto in questa esperienza potrà ricominciare a lavorare con nuove consapevolezze, portando avanti la sua missione di servizio con determinazione e abnegazione.
Aggiornato il 25/09/24 alle ore 11:48