In questi giorni…

Tre anni in cui ogni giorno è uguale all’altro, scandito non dai ritmi della vita, ma dalle sirene, dalle esplosioni, dall’attesa infinita di una tregua o di una pace che non arriva. Tre anni in cui gli anziani del fronte, di Kharkiv, del Donetsk, delle città e dei villaggi martoriati, sono rimasti soli nelle loro case, spesso senza figli, senza vicini, senza nessuno che possa prendersi cura di loro. L’Esistenza è difficile, dura come l’inverno di queste latitudini. Molti di loro avrebbero potuto andarsene, ma non lo hanno fatto. Non perché non avessero paura, non perché non sapessero cosa significa vivere sotto i bombardamenti. Sono rimasti perché andarsene avrebbe significato perdere tutto. Il senso di appartenenza, i ricordi, la casa. E così, mentre la guerra spazza via il futuro, loro resistono. Soli, con la pensione che non basta, con il cibo che scarseggia, con il freddo che entra dalle finestre rotte e con la paura costante di non farcela. La guerra ha stravolto ogni cosa. I servizi sanitari sono crollati, i presidi medici sono stati distrutti o sono diventati inaccessibili, gli ospedali lavorano in condizioni disperate e la medicina di base privata è un lusso che pochi possono permettersi. Niente visite regolari, niente assistenza continuativa. Solo emergenze, urgenze, vite salvate sul filo del rasoio. In questo scenario, abbiamo cercato di ricostruire qualcosa. Grazie al lavoro delle Caritas Ucraina, Kharkiv, Poltava e Kamianske. Ai loro caregivers, ai loro medici, ai loro infermieri, ai loro assistenti sociali, ai loro psicologi, ai loro autisti e ai loro security manager. Perché ogni viaggio porta con sé persone e relazioni. E ogni persona non è solo un aiuto, ma è una presenza che spezza la solitudine. Abbiamo attivato progetti di home care, per portare cure e dignità direttamente a casa, quando e se la casa esiste ancora. Abbiamo avviato programmi di telemedicina, per offrire un contatto con i medici anche quando le distanze e il conflitto lo rendono impossibili. Abbiamo sviluppato il cash for care, per garantire un minimo di autonomia, per permettere loro di comprare il necessario, per non farli sentire solo destinatari di aiuti ma ancora padroni, almeno in parte, della loro esistenza. Ma è abbastanza? No, non lo è. Perché la solitudine che vivono questi anziani non si colma solo con il cibo, con le medicine, con il denaro. Si colma con la vicinanza, con la presenza, con la possibilità di non essere dimenticati.

Mi chiedo spesso cosa accadrà quando tutto questo finirà. Chi rimarrà? Chi tornerà? Cosa sarà di loro? Sono domande che pesano quando esci da un appartamento dove vive una donna anziana sola, nel cuore di Kharkiv, mentre fuori il fragore di un attacco scuote le finestre. Quanto avrà inciso sulla loro mente, sul loro corpo, sulla loro dignità questa guerra che li ha lasciati ultimi, come un peso da sopportare in un conflitto che si nutre della carne giovane dei soldati e non si preoccupa di chi sopravvive? E mentre viviamo in prima linea questa emergenza umanitaria, ne viviamo un’altra, meno visibile ma altrettanto devastante: lo shutdown dell’aiuto umanitario. Le risorse si assottigliano. Le donazioni calano. L’attenzione mediatica svanisce. Le guerre che durano troppo diventano rumore di fondo. E intanto, nel silenzio assordante dell’indifferenza globale, c’è chi muore al fronte anche perché non ha più nulla da un giorno all’altro.
L’attenzione mediatica svanisce. Le guerre che durano troppo diventano rumore di fondo. E intanto, nel silenzio assordante dell’indifferenza globale, c’è chi muore al fronte anche perché non ha più nulla da un giorno all’altro.
Un anno fa, durante un convegno, provocatoriamente ho pronunciato la parola Partigiani. Partigiani dei diritti. Perché nessun diritto, nessuna conquista è per sempre. E quindi, nessuna pace è per sempre se non viene costruita, voluta e difesa. In questo anno, negli ultimi mesi, il mondo è cambiato. Troppo. Troppo velocemente. E in peggio. Perché non è solo la guerra in Ucraina, dove mi trovo. Non è solo Gaza e le sue immagini agghiaccianti. È un’aria pesante, un vento che soffia nella direzione sbagliata, un rigurgito di autoritarismi, di confini che si chiudono, di libertà che si sgretolano sotto il peso della paura e della propaganda. Diritti e verità sono sotto attacco. Stanno scomparendo. Dialoghiamo solo con la forza e mi sembra di essere inerme davanti a questo uso sproporzionato delle 3 B: Bit, Bombe e Bugie.
Un anno fa, durante un convegno, provocatoriamente ho pronunciato la parola Partigiani. Partigiani dei diritti. Perché nessun diritto, nessuna conquista è per sempre. E quindi, nessuna pace è per sempre se non viene costruita, voluta e difesa.
Ma essere partigiani oggi significa difendere la verità quando il rumore della menzogna è assordante. Significa guardare la guerra negli occhi e saperla raccontare senza edulcorazioni, senza propaganda, senza facili illusioni. Significa avere il coraggio di educare alla pace, quando la pace sembra solo un’utopia per ingenui. In un mondo in cui la parola resistenza sembra appartenere solo ai libri di storia, in cui diritti che credevamo acquisiti vengono cancellati con un colpo di spugna, abbiamo bisogno di una nuova Resistenza. Piero Calamandrei, parlando della Resistenza, ci ammoniva: «Che ne avete fatto di questa idea, di questa idea per la quale noi siamo morti?» Oggi, la sua domanda mi arriva addosso come un treno in corsa. E per me, oggi, significa non impugnare le armi, ma avere il coraggio di dire no. No alla disumanizzazione dell’altro. No alla retorica che ci vuole spettatori invece che protagonisti. No alla rassegnazione. Non possiamo permetterci di essere neutrali di fronte alle ingiustizie. Non possiamo accettare che la nostra coscienza si anestetizzi. Perché la Storia ci guarderà. E si chiederà: «Che ne avete fatto di questa idea?»
