Bolzetta: «Racconto la Chiesa nel digitale»
Non lesina mai sorrisi e incoraggiamenti Fabio Bolzetta, soprattutto a telecamere spente. Giornalista, volto di TV2000, presidente di WeCa, l’associazione WebCattolici Italiani. Che finora ha realizzato 150 tutorial – altri ne arriveranno – disponibili su weca.it. Nasce da queste riflessioni online il quinto libro di Fabio, “La Chiesa nel digitale” (ed. Tau). Che ha guadagnato sul campo la prefazione di papa Francesco.
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Niente male avere il Papa che dà l’abbrivio. Non “spengo” un po’ il sorriso di cui sopra se ti ricordo che però questo aumenta anche le responsabilità?
«È anzitutto e soprattutto la responsabilità che si sente sulle spalle oltre alla gratitudine infinita. Non si è mai abbastanza pronti né degni a un dono del genere. Però questa responsabilità non può che trasformarsi in un impegno concreto, a sostenere, condividere, diffondere e mettere in pratica le indicazioni che papa Francesco ci ha consegnato e che sono rivolte a tutta la comunità impegnata nella rete».
Nel libro “La Chiesa in digitale” prosegui il dialogo iniziato in rete sulla piattaforma di WeCa, libro disseminato di QR code che rimandano a loro volta online. Questo strumento cartaceo che parte dal web e lì ti riporta con il QR code, che momento vuole rappresentare?
«Questo è un libro che si legge con lo smartphone. Quindi a partire dal QR code pubblicato sulla copertina ha dato vita a un portale multimediale che l’associazione WeCa ha realizzato internamente, e anche allo sviluppo di un algoritmo. Il libro si inserisce nell’impegno alla formazione con un progetto multimediale più ampio. Questo significa accedere dal QR code della copertina a un portale e attraverso un algoritmo domande-risposte ci si presenta, si approfondiscono temi etici, tecnici, pratici ai quali si è più interessati. E poi il QR code fa parte delle pagine del libro, perché da una parte offre contenuti sempre nuovi e aggiornati in un ambiente che cambia quotidianamente e dall’altro consente di accedere ad altre risorse a partire da vari spunti presenti all’interno del libro. Per cui le note diventano QR Code e quindi contenuti multimediali che dalla pagina cartacea scivolano sul web».
Di quanto la presenza in rete della Chiesa sia fondamentale abbiamo avuto ancora maggiore consapevolezza all’inizio della pandemia, durante il lockdown. Nel libro questa accelerazione in termini quantitativi e qualitativi dovuta alla pandemia viene ricordata spesso. Rappresenta un punto di non ritorno o solo un’occasione di riflessione, importante, ma non più di altre?
«Rispondo con l’incipit della prefazione di papa Francesco, che scrive: “Ho ripetuto più volte che da una crisi non si esce mai uguali a prima, si esce migliori o peggiori”. Per quanto riguarda il tema che stiamo condividendo – quello della grande diffusione delle tecnologie, anche nell’ambito cattolico della rete –, questo ci porta a una riflessione. Anzitutto su quello che abbiamo vissuto. E Papa Francesco riconosce la grande creatività, generosità dei sacerdoti che, attraverso questi strumenti tecnologici, le reti sociali, hanno cercato di superare il limite delle distanze, proponendo una Chiesa che potesse sempre essere vicina. Scrive: “In quei frangenti molti si sono ingegnati per mantenere vive le relazioni umane e comunitarie”. E ancora, più avanti: “Non sono mancati errori ed eccessi. Ma quando questi tentativi hanno messo al centro il messaggio da comunicare, e non il protagonismo del comunicatore, dobbiamo riconoscere che sono stati utili”. Quindi la prova della pandemia ha portato a una crescita ulteriore dell’uso di queste piattaforme, che evidentemente non sono nate durante il lockdown, ma sono state riscoperte. E a questa spontaneità e creatività purtroppo non è seguita un’adeguata formazione. Ecco la grande sfida di oggi. Come scrive il Papa: “C’è davvero molto da fare”».
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Cosa significa per la Chiesa avere una presenza di qualità in rete?
«È nella vocazione dell’Annuncio. Oggi come sappiamo l’ambiente digitale è vissuto e abitato da miliardi di persone nel mondo. E così, come scrive papa Francesco – permettimi di citarlo ancora una volta –: “Sappiamo che mai il virtuale potrà sostituire la bellezza degli incontri a tu per tu. Ma il mondo digitale è abitato e va abitato da cristiani”. Ecco dunque la missione della Chiesa, che però oggi trova delle criticità. Trova alcuni limiti. Anzitutto quello dell’isolamento, cioè tante solitudini da tastiera, tante realtà in cui l’aggiornamento del sito si somma a tutti gli altri impegni oppure viene delegato a qualche giovane, di cui poi alla fine si sfruttano soltanto le competenze tecniche. Tutto questo non è inserito in un progetto più ampio. Il tema non è soltanto creare un bel sito e aggiornarlo, ma è vivere l’ambiente digitale e le opportunità che i social oggi ci pongono. WeCa nasce come associazione dei WebMaster cattolici italiani. Era il 2003. Ancora i social media non si erano diffusi, né tantomeno i social network; non c’erano Facebook, Twitter, Instagram. Oggi non basta iscriversi a un social per assolvere la propria vocazione di presenza. La sfida grande è quella di abitare l’ambiente digitale per concepire le tecnologie non semplicemente come dei mezzi tecnici di trasmissione di informazione, ma come spazi dove poter costruire relazioni».
Il web ha ampliato il campo semantico di parole da sempre molto usate in ambito cattolico, come connettere, condividere. Il tuo libro in un certo senso ci dice che possiamo e dobbiamo fare in modo di rimettere al centro anche nel web il significato originario di queste parole…
«Assolutamente. È come quello di essere rete, un po’ pescatori nel mare del web. Oggi probabilmente più che mai. E questo richiede anzitutto una presenza, una consapevolezza e una formazione. A partire evidentemente da un respiro di fede che ci spinge a voler abitare questo ambiente digitale per incontrare, per conoscere. Faccio un esempio concreto di un sito internet di una parrocchia che ho visitato poco prima di parlare con te. Ebbene, nel sito – abbastanza ben fatto e comunque aggiornato – c’era una parte in cui vi era scritto “Incontriamoci”. E l’utente era invitato a lasciare i propri contatti. Ecco un modo molto semplice ma in cui si è colta l’opportunità di utilizzare lo strumento per poter poi incontrare davvero, sviluppare una relazione in presenza. E oggi il cammino che proponiamo attraverso queste pagine non sono tanto i quattro poli di una bussola, ma un cammino per tappe, e cioè: riflettere, scoprire, per poi condividere sui social media e pubblicare sul web, rispondendo a domande molto concrete. Sono quattro verbi che guidano le quattro parti in cui è suddiviso il libro. Ricco di esempi concreti».
Quali spunti, quali occasioni di formazione e riflessione possono trovare nello specifico gli operatori delle Caritas diocesane che si occupano anche di comunicazione su weca.it e sul tuo libro? Si tratta di persone che sono chiamate a sensibilizzare ogni giorno il territorio, a raccontare il territorio…
«E raccontare il territorio significa farlo dopo aver incontrato le persone. Cioè, se intercettiamo le direttrici dell’incontro e dell’ascolto e gli diamo una presenza anche nella rete, ecco dunque che l’invito alle Caritas diocesane e parrocchiali non può che essere quello di promuovere un racconto attraverso uno dei quattro verbi che prima abbiamo citato, cioè condividere per condividere il bene, ma non in maniera spontanea, perché dobbiamo comunque apprendere i linguaggi propri di questi strumenti. Quindi non basta ricostruire un racconto dopo che è avvenuto: nel momento stesso in cui entriamo a contatto con una realtà, seguiamo un’iniziativa, dobbiamo già pensare a come questi strumenti possono supportarci. Dalle stories ai post… E non basta “accorciare” un comunicato per farlo entrare nel numero massimo di caratteri possibili su ciascun social o pubblicare foto per assolvere a questo impegno. Ci vuole creatività, perché la base del bene c’è, il racconto c’è, le storie ci sono e dunque resta “solo” cercare di promuoverle e farle conoscere attraverso questi strumenti».
Fabio, tu anche grazie al tuo lavoro di inviato di TV2000, hai una certa consuetudine con le Caritas diocesane e il loro operato sui rispettivi territori. C’è qualcosa del loro modo di essere presenti nei vari media digitali su cui si dovrebbe lavorare meglio o di più?
«Se mi sproni a dare un consiglio critico – nel senso costruttivo del termine – inviterei a osare di più proprio in termini di creatività. Cioè a cercare modi nuovi di raccontare. Per esempio con le storie di chi ce l’ha fatta. Mi ha colpito tantissimo raccogliere una storia in Sardegna a poca distanza dalla Costa Smeralda, chiusa per ferie perché fuori dal periodo estivo. Dove un utente di un ricovero notturno era diventato lui stesso il gestore. Ecco che invece di parlare della struttura io parlerei della persona, ovviamente con il grande rispetto e tatto che ognuno di noi ha e deve avere. La storia può essere il modo per raccontare il tanto che si fa. Storia che a volte più dei numeri riesce ad arrivare, a toccare il cuore delle persone perché purtroppo noto che come società siamo in un tempo in cui ci si è anestetizzati al dolore, e per chi è impegnato nella carità, nella lotta alla povertà, alle disuguaglianze è difficile, ma bisogna arrivare al cuore di problemi, che ci devono sempre interpellare come cristiani».