“Famiglia Cristiana”, 90 anni con lo sguardo bambino
Durante la caduta del Muro di Berlino don Stefano Stimamiglio era studente Erasmus in Germania. Ha assistito in diretta «a un evento straordinario che faceva ripartire la storia». E proprio per la storia è nata lì la sua passione, come per l’economia, la cultura in senso antropologico; insomma, tutte le grandi direttrici della vita dell’uomo. Ha così provato a Roma il concorso diplomatico. Era il suo sogno. Anche se oggi non sarebbe felice di fare quel lavoro, perché anni dopo ha messo a fuoco che dietro alla passione per la scoperta di culture “altre” c’era e c’è la gioia di vedere tutti gli uomini come figli di Dio e a tutti proclamare la bellezza dell’incontro con il Signore. Ma, dicevamo, questa tensione si è resa chiara dopo, perché, tornato dall’Erasmus a Treviso, la sua città, ha passato gli esami da procuratore legale, è stato assunto in diversi uffici legali di grandi aziende per poi, appunto, capire «che effettivamente avevo sbagliato strada e ho fatto marcia indietro, con tutte le fatiche del caso». Siamo già nella seconda metà degli anni ’90. E novanta sono anche gli anni che ha compiuto lo scorso dicembre la rivista che da qualche mese Stimamiglio dirige. Quella “Famiglia Cristiana” del Gruppo editoriale San Paolo che, con l’articolo davanti, “La Famiglia Cristiana”, vedeva la luce il 25 dicembre 1931 e si riprometteva di parlare alle famiglie di tutto cristianamente. Promessa mantenuta.
Don Stefano Stimamiglio, sacerdote della Società San Paolo, giornalista, una licenza in Teologia del Matrimonio e della Famiglia. A proposito, gode di più buona salute il settimanale “Famiglia Cristiana” o la famiglia italiana?
«Diciamo che nessuna delle due sta benissimo. Le cose vanno di pari passo. Per la famiglia in Italia non ci sono abbastanza fondi. Questo assegno unico è stato un po’ un patchwork, un rimettere insieme una serie di fiscalità a favore della famiglia che però hanno, in realtà, complicato le cose se è vero che è stato ridotto il budget. Sono tantissime le politiche familiari che in Italia mancano, a partire da quella sulla scuola, i trasporti, … tutta una serie di misure che non ci sono in Italia, ma sono presenti in tante altre nazioni. E poi quel dato dell’Istat che prevede nel 2022 la nascita di 385.000 bambini. Quindi siamo già calati sotto la soglia psicologica di 400.000 nati. La popolazione italiana sta diminuendo. Oggi pensiamo giustamente alle bombe in Ucraina, all’epidemia, che è stata una bomba ovviamente di tipo diverso. Queste sono le emergenze e sappiamo che hanno delle conseguenze enormi anche sulle famiglie. Ma tutti noi siamo seduti su una bomba demografica che tra dieci, quindici anni esploderà senza che riusciremo a fare più nulla. Tutto questo lo diciamo da tanti anni – non solo noi, certo –, ma la politica di destra, di sinistra, di qualsiasi parte non ha mai ascoltato. Perché gli italiani non fanno più figli? Le motivazioni sono tante, però è una cosa su cui non ci si interroga abbastanza, non ci interroghiamo sul perché i ragazzi oggi non abbiano speranza del futuro. E se manca la fiducia nel futuro non mettono su famiglia. Tornando alla domanda originale, “Famiglia Cristiana” sta facendo fatica come fa fatica tutta la stampa tradizionale, perché la carta è aumentata e i lettori diminuiscono».
Lei è intervenuto al 42° Convegno nazionale delle Caritas diocesane, a Rho, lo scorso mese di giugno. In quell’occasione ha parlato, tra l’altro, della potenza della narrazione, capace di creare un cuore solo, un’anima sola. Ma quando la narrazione rende questa opportunità reale?
«Quando incrocia i cuori e questi si mettono insieme. Il problema è che oggi il cuore dell’uomo si fa poco incrociare. Faccio l’esempio dei podcast, un nuovo grandissimo tema della comunicazione. Rispetto a un film, che richiede tutta la tua attenzione, puoi ascoltarlo mentre fai sport, cammini, sei in macchina. Ascolti anche per ore, tutte le puntate. Questa cosa interessa. La narrazione funziona. Però questa narrazione non tocca tutta insieme la massa di persone. Non è più possibile che lo faccia perché c’è una dispersione enorme di narrazione. Mi ricordo che una volta se si usciva su un giornale con un grande tema e si proponeva una storia, la questione che quella storia poneva alla società civile causava una levata di scudi, con interventi di politici, ecc. Oggi questo non accade più perché siamo investiti da una serie di narrazioni vere e false che in qualche modo sono dispersive, cioè non riescono più a indirizzare tanti cuori insieme verso una dinamica. Non siamo più in grado di portare la gente nelle piazze, di fare pressione politica forte».
Nella copertina del primo numero di “La Famiglia Cristiana”, Natale 1931, vediamo un Gesù bambino benedicente. Troviamo di nuovo Gesù bambino nella copertina che festeggia il 90esimo compleanno, lo scorso Natale (foto sotto). Il gesto del Bambino è lo stesso, cambia il tratto e i tratti del viso. Dopo tanti anni, però, ancora lo stupore di un bambino a caratterizzare la rivista…
«Sì, lo stupore di un bambino particolare, che è Gesù, la nostra origine e la nostra meta. “Famiglia Cristiana” compie gli anni a Natale e per noi ogni 25 dicembre è un po’ un miracolo. Papa Francesco quando ci ha incontrato, lo scorso 21 maggio, ci ha detto che la rivista è una nonna “che ne ha viste tante e ha acquistato saggezza”. Siamo anche letti da molti nonni. Però vogliamo sempre tornare a essere bambini, proprio nel modo in cui cerchiamo di vedere la realtà. Ecco, secondo me c’è proprio un richiamo da parte di questo sguardo di bambino, semplice, non giudicante, che agisce sul mondo e su ciascuno di noi».
Don Giacomo Alberione, fondatore delle Edizioni Paoline, disse: «”Famiglia Cristiana” non dovrà parlare di religione cristiana, ma di tutto cristianamente». Ci sembra che questa indicazione abbia sempre orientato il vostro lavoro negli anni.
«Sì, diciamo che l’ha orientata e ovviamente coniugata ai tempi. Don Giuseppe Zilli operò un processo di laicizzazione della rivista, che gli fu affidata a partire dal 1954, e interpretò questa affermazione di don Alberione come invito a realizzare una rivista non clericale, che non parli solo delle dinamiche ecclesiali in senso stretto senza approfondire l’esperienza, l’avvenimento cristiano. Questo è tanto più importante oggi con sempre meno persone che si riconoscono nell’avvenimento cristiano. È necessario questo sguardo cristiano, una visione delle cose profonda. Quasi non c’è bisogno di esplicitare la religione come fatto sociale: l’esperienza cristiana diventa esperienza profondamente umana, dove ci ritroviamo davvero tutti».
Salto temporale: da Alberione a don Antonio Sciortino, che ha diretto la rivista fino al 2016. Alle critiche giunte in redazione sul fatto che in copertina a volte erano ritratti personaggi pubblici discussi – magari divorziati –, Sciortino rispose che ignorare o declassare una persona solo per la sua vita privata non è Cristianesimo, ma bigottismo. Tali scelte quale impatto hanno avuto sui lettori?
«Prima magari non avevamo avuto il coraggio di dircelo. Sciortino lo ha detto. Tanti personaggi pubblici, anche quelli che proclamano la famiglia come grande orizzonte, non hanno una famiglia o ne hanno più di una. Allora l’idea è che se noi “selezioniamo” le famiglie “con il pedigree”, diventiamo una riserva di caccia ma soprattutto significa che non ci domandiamo: come Gesù vede queste persone? Torna quell’atteggiamento che non giudica di cui Papa Francesco parlava rispetto alle persone omosessuali. Non possiamo dare un giudizio. Certo, ci sono tante donne e uomini che esprimono idee diverse dalle nostre, però non si può chiedere una patente di identità, anche perché le vite vanno come vanno, ci sono molte persone divorziate. Abbiamo pubblicato di recente un servizio sui sacerdoti della Diocesi di Napoli che hanno avuto la dispensa dagli abiti sacerdotali. Questi sacerdoti sono stati coinvolti nel cammino sinodale. In passato un prete “spretato” era in qualche modo espulso ed era un fatto del quale era meglio non parlare. Adesso addirittura un vescovo di una grande Diocesi italiana chiama queste persone e chiede loro: cosa potete fare voi per la Chiesa? La stessa domanda che il cardinale Carlo Maria Martini rivolge nella famosa intervista pubblicata il giorno successivo alla morte, esattamente dieci anni fa: che cosa puoi fare tu per la Chiesa? Questo è il grande tema. Viviamo in una società sempre più secolarizzata, sempre più fondata sui diritti individuali che perdono di vista il bene comune. Non possiamo certo sottoscrivere una cosa del genere. Dobbiamo però prendere atto, ad esempio, che molti fanno fatica a riconoscere che nel matrimonio cristiano c’è la pienezza dell’essere – forse anche perché a volte non hanno delle buone testimonianze. I tempi sono cambiati. È chiaro che magari per la scelta che don Sciortino difendeva alcuni lettori ci hanno lasciato dicendo: non è più una rivista cristiana. Ma una rivista che si pone come ponte fra l’esperienza cristiana e l’esperienza del mondo è sottoposta in alcuni momenti a dei terremoti, riflesso dei terremoti che avvengono nella società. E anche nella politica».
Il colloquio con i lettori per “Famiglia Cristiana” è sempre stato fondamentale. Come è cambiato negli anni?
«Ci scrivono molti lettori. Io cerco di rispondere a tutti, prendendomi del tempo per riflettere sulle questioni che ci pongono. Questo rapporto è importante, che vive in una dimensione ovviamente diversa da quella della parrocchia. Qui non stiamo faccia a faccia con la persona, ed è un gap che noi Paolini proprio per scelta vocazionale, per la nostra missione paghiamo, cioè la distanza rispetto al nostro pubblico, che misuriamo con riscontri indiretti. Scrivono tante persone, oggi come ieri; quello che secondo me è cambiato negli ultimi decenni è il fatto che ci scrivono sempre meno di questioni intime, private, spirituali, morali e sempre più di temi sociali. Questo anche perché esistono tante altre opportunità di incontrare un sacerdote rispetto agli anni ’60, ’70, e comunque si è più liberi di parlargli di certi temi, soprattutto quelli riferiti al sesto comandamento».
A volte “Famiglia Cristiana” mette in collegamento i lettori tra loro, si fa promotore di una rete. Un esempio: qualche settimana fa lei, don Stimamiglio, ha pubblicato nel suo blog sul sito della rivista famigliacristiana.it (vedi immagine sotto) una lettera di una persona in carcere. E si è reso disponibile a inoltrare a questa persona eventuali messaggi, lettere di altri lettori.
«La lettera di questa persona detenuta ha avuto un grande riscontro. Ci è giunta attraverso un volontario in carcere, e chiedeva di entrare in contatto con altre persone. Ho avuto tantissime risposte, tutte inoltrate. Lui ci ha inviato un’altra lettera da poco, pubblicata ne “L’angolo della Speranza”, ringraziando i lettori. Alcune narrazioni colpiscono le persone che ascoltano nel grande frastuono di tutti i racconti che ci sono oggi. Funzionano se c’è compartecipazione, se c’è compassione».
La battaglia sociale, la campagna portata avanti da “Famiglia cristiana” in questi anni che forse più di altre racconta lo spirito del giornale?
«Di sicuro la campagna sulle mine antipersona, che abbiamo sposato con Emergency, Pax Christi, Caritas e altri. Era la seconda metà degli anni ’90. Io non ero al giornale all’epoca. Una campagna molto forte, per eliminare una disgrazia dell’umanità. Dovremmo riflettere di più tra noi, mondo cattolico, soprattutto con le associazioni del Terzo settore, organismi, movimenti, per sposare un’idea, una causa e portarla avanti insieme. Progettare insieme. Diciamo che il Papa detta l’agenda perché i suoi documenti sono magistrali, però tra l’enunciazione e una campagna stampa ci vorrebbe davvero una riflessione approfondita e comune. Andrea Riccardi qualche giorno fa sul “Corsera” ha ricordato che la nostra voce di cattolici non è più come era anche fino a solo dieci anni fa. Siamo meno influenti. Siamo diminuiti di numero, la società sta rapidamente secolarizzandosi, spesso non ci mettiamo d’accordo. E a volte la nostra voce dà addirittura fastidio, sulla scorta di alcuni casi di cronaca nera, scandali economici. Una serie di questioni che fanno sì che soprattutto tanti giovani abbiano scarso interesse per le questioni della Chiesa».
E tra le quasi 5.000 copertine realizzate finora, in 90 anni, quale, se potesse, ripubblicherebbe nel prossimo numero senza pensarci due volte?
«Una copertina del dicembre 2013 che ritraeva in primo piano Nelson Mandela (foto sopra). Gliela dedicammo a pochi giorni dalla morte. Lui e la sua vita, il suo impegno, sono un manifesto contro la discriminazione razziale. Un tema che purtroppo non va mai in soffitta».
Una coincidenza. Il primo numero di ”Famiglia Cristiana” uscì lo stesso giorno della prima rappresentazione teatrale di “Natale in casa Cupiello” di Eduardo De Filippo. Il 25 dicembre del 1931 in Italia vedono la luce due proposte, due riflessioni che ciascuna con il proprio linguaggio hanno detto delle cose precise alla famiglia italiana in questi anni…
«La famiglia non è una questione cattolica. La famiglia è una questione di vita, di cui si può parlare con tanti linguaggi. Un linguaggio è la rivista, un altro è una pièce teatrale. Entrambe esprimono una loro narrazione. Ciascun linguaggio dà il proprio contributo all’alleanza con tutte le persone di buona volontà rispetto al tema della famiglia. Senza famiglia la società sparisce, costa anche di più, è più povera, è più infelice, e quindi la famiglia è per il bene dell’uomo, non è un tema dell’agenda cattolica. Anche se purtroppo si è ridotta molto a questo».
“Famiglia Cristiana” ha cercato di essere sempre al passo con i tempi e sempre coerente alle parole del fondatore don Alberione. Ma è inevitabile che ogni direttore lasci la sua impronta. Sfogliando i numeri più recenti della rivista, dove possiamo scorgere l’impronta di don Stefano Stimamiglio? E dove la vedremo sempre più?
«Anzitutto con me c’è il condirettore Luciano Regolo, quindi portiamo avanti il giornale in due. La prima modifica è in copertina, che abbiamo cercato di semplificare. A me sono molto cari i temi della vita. E quindi la famiglia. Sono i grandi temi a cui darei tutto lo spazio. Però questo non è possibile. Il tema dell’aborto è ad esempio una cosa che a me ha sempre sconvolto. Anche prima che vivessi la mia conversione, perché la ritengo la più grande ingiustizia, la più grossa dichiarazione di guerra che possa esistere. Madre Teresa diceva: “L’aborto è il più grande distruttore della pace perché se una madre può uccidere il suo stesso figlio, cosa impedisce che io uccida te e tu uccida me?”. Abbiamo fatto cinque servizi, con vari tagli, sull’aborto in piena estate, forse la stagione meno indicata per trattare un tema del genere. Questa è una cosa che vorrei portare avanti. Però, sia chiaro, non con rivendicazione, non con toni polemici, cercando di parlare della bellezza che c’è, senza condannare nessuno, senza dare colpa a nessuno. Un approccio proprio di sofferenza, di compassione. A me non piacciono le guerre stampa, che sono ideologiche, mentre il Signore è tutt’altro che ideologico: è Vita incarnata» (fine).