Letteratura per l’infanzia e disabilità
Essere disponibili a incontrare l’altro. Saper guardare anche realtà scomode. “Abitare la soglia” significa tutto questo. E di più. “Abitare la soglia. Sguardi inclusivi nella letteratura per l’infanzia” è il titolo di un libro edito da Pensa Multimedia in cui dentro c’è tanto dell’impegno profuso in questi anni dall’autrice, Maria Filomia, docente di Letteratura per l’infanzia presso l’Università degli Studi di Perugia. La incontriamo e scopriamo una persona superentusiasta di raccontarlo questo nuovo libro. Perché la rappresentazione della disabilità può essere incontro, conoscenza, scoperta di sé.
Lei definisce “Abitare la soglia” un libro-seme. Quali riflessioni e azioni spera che questo seme generi?
«Due tipi di frutto. E comunque sempre frutto di movimento. Che educatori e insegnanti possano comprendere cos’è questa soglia che io propongo e che invito ad attraversare. E che poi si possano fare accompagnatori dei bambini verso e possibilmente oltre questa soglia».
Cita Paolo Freire. In cosa è stato di ispirazione il pedagogista brasiliano nei suoi studi su questo tema specifico?
«Freire, come altre figure che nella mia formazione hanno avuto un ruolo significativo, è uno di quei pedagogisti che mi ha insegnato a sperare nella libertà, nel fatto che tutti i condizionamenti, le povertà di qualunque tipo, non condannano in maniera definitiva la persona».
Abitare la soglia per incontrare l’altro, anche la realtà scomoda. Ma la letteratura deve aiutare a rendere meno scomode certe realtà?
«Io spero invece che la letteratura continui a lasciare scomode le cose scomode. Che non le voglia per forza ricomporre in un orizzonte di ordine. In particolare, rispetto alla disabilità, il tema che io affronto in questo volume, la letteratura che propongo è schietta, non ha paura di dire le paure, non ha paura di dire il dolore, di dire che ci sono delle cose brutte, “solo” perché fanno male. E quindi io spero che la letteratura resti sempre una spina nel fianco del lettore, perché solo così possiamo realizzare quell’incontro mediato. Io posso incontrare l’autenticità dell’altro attraverso la letteratura. Però solo se questa resta scomoda, se non vuole per forza rendere il posto bellino, la persona vincente a ogni costo».
In che modo la letteratura è una chiave di accesso alla disabilità?
«La letteratura che io propongo presenta l’altro, la persona con disabilità fuori dall’etichetta della sua diagnosi. E quindi presenta le sue possibilità, ricchezze, interessi, sentimenti, ci consente di entrare in empatia con il personaggio. La letteratura, poi – rispetto, che so, al giornalismo –, mette dentro anche la poesia. L’emozione, i sentimenti – complessi – sono in chiave poetica. Inoltre la letteratura apre sempre alla speranza».
Quando è che una storia, anche se parla di disabilità, dà a un bambino che non abbia difficoltà fisiche o intellettive, la possibilità di immedesimarsi?
«La storia apre sempre alla possibilità di immedesimarsi, anche quando leggiamo di qualcuno che non si conosce. Faccio un esempio che sembra lontano, però per i bambini è efficace: se io non leggo mai di un pirata non potrò mai sapere che i pirati esistono. Se io non leggo della complessità del reale, non ne avrò mai una conoscenza. E poi la letteratura per l’infanzia non racconta mai di un singolo bambino, ma di un bambino in relazione a un fratellino, a una sorellina, alla sua mamma, la scuola, i compagni. Mi viene in mente un albo che si intitola “Noi” di Elisa Mazzoli. Il bambino io narrante è a scuola, parla di “noi”, intendendo lui e i suoi amichetti, non comprendendo in questo “noi” Occhione, un bambino che ha delle difficoltà. Poi un giorno si ritrova da solo in cortile con Occhione; iniziano a parlare, a giocare e allora si rende conto che quelle difficoltà che lui aveva notato e che prima erano motivo di allontanamento, ora che ha conosciuto la realtà di Occhione non hanno motivo di esistere. Quel “noi” è diventato i due bambini. Quindi un bambino che legge può vedere la difficoltà che ha rispetto alla paura, la non comprensione, ma anche la possibilità di un incontro, i tesori che ogni altro bambino ha da darmi».
Inserire nelle narrazioni bambini con disabilità facilita la conoscenza, ma deve anche far passare il messaggio che la condizione che vivono li renda uguale agli altri?
«Dire che siamo tutti uguali è tremendamente sbagliato. Un bambino con disabilità vive una condizione diversa dagli altri. La verità è che siamo tutti diversi, solo che alcune diversità non sono accolte. Ecco la vera difficoltà che abbiamo nella nostra cultura: non tutte le diversità vengono accettate».
E poi un bambino con disabilità ha bisogno di leggere racconti dove ci siano dei protagonisti che vivono la sua stessa condizione.
«Assolutamente. Sia perché ha diritto di essere rappresentato, e poi perché, come dice il pedagogista Andrea Canevaro, questo tipo di lettura aiuta i bambini con disabilità a prendere consapevolezza di sé. E quindi dei loro sentimenti, delle loro emozioni. È uno strumento di grande alfabetizzazione emotiva la lettura».
Però ancora una volta a parlare – a scrivere nei casi da lei ricordati nel libro – di disabilità sono persone che la disabilità non la vivono sulla loro pelle.
«C’è tutta una letteratura che narra la disabilità scritta da bravissimi scrittori non improvvisati, bravi illustratori che sono testimoni privilegiati. Dentro le loro opere si colgono degli aspetti molto interessanti. Leggendo i loro libri si capisce che sono stati vicini a persone con disabilità, si sono documentati. Però è vero: ci sono degli albi o dei libri per l’infanzia che raccontano malissimo le cose. Bisogna dunque individuare i prodotti di qualità. Mi viene in mente Gusti, un famosissimo scrittore di letteratura per l’infanzia, pluripremiato, di lingua spagnola, che ha un bambino con la sindrome di Down. Racconta in un’opera meravigliosa, “Mallko e papà”, di quanta fatica abbia fatto ad accettare il figlio. Lui dice: “Se il disegno che faccio non mi piace, io lo strappo e lo butto. Mallko non lo posso buttare, però non mi piaceva come era venuto”. C’è una parte dove Gusti scrive: “Dio, perché?”. Quindi mette a nudo, anche con molta sofferenza, la difficoltà dell’accettazione. In un altro genitore che vive quella stessa situazione è di grande conforto sapere che non è illegittimo passare dalla paura, dal rifiuto. La difficoltà narrata aiuta anche chi la vive. E non solo: una difficoltà narrata in maniera così schietta, così sofferta, aiuta anche un insegnante, un educatore a comprendere che i genitori non vanno giudicati, poiché uno degli atteggiamenti più diffusi rispetto alle pratiche inclusive è proprio giudicare i genitori perché non capiscono ecc. Insomma, la rielaborazione del lutto è molto complessa. Leggerla dalle parole di chi l’ha vissuta in questa modalità narrativa aiuta».
La letteratura è sempre una possibilità di incontro, di conoscenza. Quale il valore aggiunto della letteratura per l’infanzia?
«La letteratura per l’infanzia è più poetica e più profonda. E più coraggiosa. Quasi nessun libro ha il coraggio di certi libri per l’infanzia».
Di solito si invita a superare il termine “speciale”, che invece lei usa. Non si rischia in questo modo di marcare la differenza? La parola “speciale” non potrebbe generare reazioni vicine a quelle prodotte da un tipo di narrazione “Inspiration porn”, cioè le persone disabili vittime o eroi?
«”Speciale” deriva dal fatto che credo sia importante riconoscere il diritto alle persone di scegliere come vogliono essere chiamate. Io uso il termine “speciale” perché sono mamma di una bambina speciale e nella disabilità non c’è niente di normale. Nulla. Perché le persone con disabilità fanno tutto in maniera più difficile, più faticosa, più complessa. Ecco perché mi sono autorizzata a usare questo termine».
Le fiabe sono sempre state il luogo della narrazione della diversità. Ce ne ricorda una?
«”Il soldatino di stagno” di Hans Christian Andersen, pubblicato la prima volta nel 1838. È il racconto di questo soldatino al quale manca una gamba. Però lui si regge sulla sua unica gamba con molta fierezza. Vede da lontano nella stanza dei giochi una ballerina che è nella posizione del ballo, con una sola gamba poggiata a terra. Crede dunque che anche lei abbia un arto in meno. Fa di tutto per avvicinarsi e ci riesce. Attraversano tante peripezie per poi finire entrambi bruciati. Ma il finale non inganni: c’è questa idea della vita ultraterrena, molto presente nelle fiabe di Andersen, che riesce in qualche modo a realizzare il loro desiderio di stare sempre insieme».
Ancora qualche suggerimento tra le opere contemporanee.
«Consiglio “Il bambino di vetro” di Fabrizio Silei. Pino, il progtagonista, ha una malattia che gli impedisce di fare le cose che fanno gli altri bambini. Guarda sempre dalla finestra un gruppo di coetanei, desiderando di giocare con loro. Un giorno il padre lo porta giù. Lui passa vicino a questi bambini e sente che dicono: “È il bambino di vetro”. La reazione di Pino: “Mi chiamano il bambino di vetro. Se mi hanno dato un nome vuol dire che anche io esisto per loro. Non pensavo si potesse essere così felici”. È spiazzante che questo bambino possa essere felice per il fatto di sapere che gli hanno dato un nome. Che tra l’altro ha a che fare con la sua identità, la sua difficoltà. E poi un altro suggerimento: “La lezione degli alberi” di Roberto Parmeggiani, un albo illustrato meraviglioso in cui un bambino, Enrico, ha un’amichetta, Paola, che non parla. Un giorno incontra il maestro e gli chiede: “Maestro, ma noi bambini, siamo tutti uguali o tutti diversi?”. E aggiunge: “Ma io sono uguale o diverso da Paola?”. Allora il maestro: “Tutti i bambini sono come gli alberi, ci sono quelli più alti, i sempreverdi, …”. E fa tutta una serie di descrizioni delle varie caratteristiche degli alberi collegandole ai bambini. Poi alla fine parla degli alberi di cachi: “Sono quelli che fanno i frutti quando tutti gli altri hanno perso le foglie. Sono il cibo preferito per gli uccellini infreddoliti. Sembrano in ritardo, in realtà sono alberi a modo loro”. Enrico va via pensando a queste parole e inciampa in una radice. Allora inizia a vedere gli alberi in maniera diversa, a rendersi conto che sono tutti uguali e diversi allo stesso tempo, come i bambini, e che soltanto se si è disposti a inciampare nell’altro, si vede con chiarezza. Alla fine Enrico regala a Paola una bustina di semi di cachi».
Le persone disabili sono sottorappresentate in letteratura, ma anche in tv, al cinema. E se sono inserite nella narrazione è sempre in funzione della loro disabilità.
«C’è ancora tanto lavoro da fare. L’assoluta mancanza di rappresentazione della disabilità nel libro di testo a scuola penso la dica lunga. È preoccupante, dal momento che secondo l’Istat in alcune famiglie italiane il testo scolastico è l’unico libro a entrare in casa. Lo scorso mese di settembre sono stata a Expoaid, a Rimini, l’evento dedicato alle persone con disabilità che coinvolge Terzo settore e associazionismo. Io lì ho visto un mondo possibile. Si potrebbe obiettare: ma per forza, se non lo vedi là! Però l’ho scoperto talmente forte e reale da essere tornata con la certezza che qualcosa si sta muovendo. Ed è di qualche giorno fa l’annuncio che nel prossimo ottobre si svolgerà in Umbria il primo G7 al mondo su inclusione e disabilità. I grandi del mondo che si radunano per i piccoli mi sembra un segno di grande speranza».
Maria, arriverà il giorno in cui la parola “inclusione” non servirà più?
«Questo è il mio sogno: che “inclusione” sia una di quelle parole così inutili da non doverla pronunciare più. Io spero davvero che questo giorno arriverà e spero anche di esserci! Proprio ieri ho incontrato 20 insegnanti e educatori e ho parlato loro di “Abitare la soglia”, di questa idea di andare a vedere nelle nostre biblioteche, se hanno libri che affrontano certi temi. Nel mio piccolo cerco di fare qualcosa. Io ci voglio credere che arriverà il giorno in cui dirò: com’era quella parola che non si usa più? Ah, ora ricordo: inclusione. Era bella, sì, ma è ancora più bello sapere che oggi non c’è più bisogno di usarla!».