Le Paralimpiadi più grandi di sempre
Ogni prova è un limite che l’atleta cerca di superare. Ne abbiamo visti di agognati obiettivi raggiunti alle recenti Olimpiadi; ne vedremo durante le prossime Paralimpiadi. Ecco, i limiti da misurare nelle gare di Parigi 2024 saranno quelli lì. Altri limiti fanno parte della storia di ciascuno degli atleti paralimpici, ma, appunto, rappresentano un aspetto, non possono essere la chiave di lettura attraverso cui guardarli e tifare per loro. Ci accompagnerà con competenza anche stavolta, come dal 1992, la voce di Claudio Arrigoni, il giornalista italiano più accreditato sugli sport paralimpici. Arrigoni lavora con le parole sulle colonne de “La Gazzetta dello Sport” e del “Corriere della Sera”. Ha lavorato sulle parole per un prontuario ragionato e utilissimo che vi invitiamo a scaricare qui: “Comunicare la disabilità. Prima la persona”. Sceglierà parole precise e non lesinerà quelle un po’ emozionate commentando in tv le cerimonie di apertura, di chiusura e le gare di atletica di Parigi 2024.
Mercoledì 28 agosto il braciere olimpico tornerà ad accendersi, stavolta per 4.400 atleti; ben 141 gli italiani in gara, equamente divisi tra uomini e donne. Li seguiremo sugli schermi di Rai 2, che è la rete ufficiale di questi XVII Giochi paralimpici. Il fatto che per la prima volta un canale generalista dal 28 agosto all’8 settembre spalmerà nell’intero palinsesto, in quasi ogni fascia oraria, le prove di questi atleti è un segno grande di interesse da parte del servizio pubblico e degli spettatori, sulla scorta anche dei buoni risultati in termini di ascolti delle edizioni precedenti, trasmesse su reti pubbliche tematiche. Questa scelta annulla la distanza almeno dal punto di vista mediatico con le recenti gare parigine. Una distanza che Arrigoni è impegnato ad annullare da ogni prospettiva. Lo abbiamo incontrato prima della partenza per Parigi.
Sotto quali auspici partono le prossime Paralimpiadi?
«Credo che la Paralimpiadi di Parigi si prospettino come le più grandi di sempre sia dal punto di vista del numero degli atleti che da quello organizzativo. Si torna dalle “nostre parti” dopo Rio e Tokyo, quindi in orario europeo, cercando di replicare quella che finora è stata considerata la più bella Paralimpiade disputata finora: Londra 2012».
Per la prima volta in Italia un canale televisivo generalista, Rai 2, sarà la rete delle Paralimpiadi. Una scelta che però non arriva dal nulla.
«La Rai è da diversi anni insieme al britannico Channel 4 un punto di riferimento per le Paralimpiadi. Si pensi che dopo Rio 2016 il Comitato Paralimpico Internazionale ha dichiarato che proprio la Rai aveva accumulato più ore di trasmissione delle tv degli altri Paesi, anche di Rede Globo, il colosso brasiliano. Credo che oggi essere su Rai 2, così come successo per le Olimpiadi, e poi naturalmente su Rai Sport e RaiPlay, sia un bellissimo passo avanti nel riconoscimento che lo sport paralimpico ha pari dignità di quello olimpico. Perché annovera grandi atleti e per l’importanza sociale che riveste. Non è stato facile: ci sono voluti anni per arrivare a questo».
L’Italia paralimpica come è percepita all’estero?
«L’organizzazione italiana è un modello per altri Paesi. Diversi i motivi. Anzitutto perché il Comitato Italiano Paralimpico è un ente pubblico, primo caso al mondo. Poi per l’attenzione che anche altri settori della nostra vita sociale riservano al movimento paralimpico. Tra le conseguenze: l’introduzione degli atleti nei corpi militari e adesso anche la possibilità di fermarsi dopo la carriera sportiva all’interno degli stessi corpi militari. Un aspetto davvero rivoluzionario. Parte di questi risultati si devono a Luca Pancalli, il presidente del Comitato, che in 24 anni, da Sidney 2000, ha preso in mano quella che era la Federazione Italiana Sport Disabili, l’ha fatta diventare Comitato Italiano Paralimpico e poi ha lavorato per arrivare al riconoscimento di ente pubblico».
In cosa invece siamo indietro rispetto ad altri Paesi?
«Anzitutto aggiungo: è giustissimo che il movimento paralimpico abbracci non soltanto gli sport e gli atleti che partecipano o hanno partecipato alle Paralimpiadi – o che ne hanno l’intenzione –, ma abbia, appunto, un significato più ampio, cioè che racchiuda tutti quegli sport, quelle discipline praticate da atleti con una qualunque condizione di disabilità. Questo è un altro vantaggio dell’Italia rispetto a tanti altri Paesi. Quello che ancora ci manca è l’investimento nella promozione dello sport, che potrebbe portare a una maggiore possibilità di accesso per tante persone con disabilità, così come l’accesso agli ausili, perché lo sport paralimpico ne necessita, non dimentichiamolo. Spesso sono molto costosi se si vuole fare attività a un certo livello. Mi riferisco, ad esempio, alle protesi specifiche per la corsa, alle carrozzine sportive con ruote inclinate, alle handbike, … Ecco, questa possibilità di accesso non c’è ancora per tutti».
Arrigoni, lei da quanto tempo si occupa di sport paralimpici?
«Dall’inizio degli anni ’80. Ricordo che il 1981 era l’Anno internazionale dell’handicappato – purtroppo si chiamava ancora così. A Roma, in una manifestazione sportiva legata agli eventi di questo Anno internazionale si esibì Arnie Boldt, un grandissimo altista con una gamba amputata. Allo Stadio dei Marmi saltò due metri e 01. Sapete all’epoca quanto saltava Sara Simeoni? Due metri e 01! Boldt fece quindi molto scalpore. Questo diede impulso anche ad altre gare. Io ero giovanissimo. Iniziai dai campionati italiani di atletica di Bareggio che credo furono proprio in quell’anno. Allora c’era un giornale a Milano che si chiamava “La notte”. Andai a seguite l’atletica per questa testata e da lì non mi sono più fermato. Chi ha a che fare con il mondo paralimpico poi non se ne stacca più. È una cosa talmente bella, appassionante, con tutte quelle storie degli atleti da ascoltare e raccontare».
Nel 2014 la Hoepli ha pubblicato il suo libro “Paralimpici. Lo sport per disabili: personaggi, discipline, storie”. In questi dieci anni le cose sono progredite parecchio.
«Sì. Sono stati anni fondamentali perché da Londra 2012 abbiamo assistito a una rivoluzione comunicativa sul mondo paralimpico. Questo ha permesso anche a tanti atleti nuovi di affacciarsi allo sport in ambito professionistico. A partire da Londra abbiamo avuto veramente dei grandissimi campioni in tutte le edizioni della Paralimpiadi. Anche precedentemente, a dire il vero, però fino al primo decennio di questo secolo il mondo paralimpico viveva sul volontarismo. Poi è cresciuta la professionalità. L’entrata nei gruppi sportivi è stata davvero importante per permettere agli atleti di alto livello di concentrarsi. E quando hai grandi atleti aumentano le possibilità promozionali. L’handbike prima di Alex Zanardi era quasi sconosciuta: oggi è uno degli sport paralimpici più in espansione. Bebe Vio ha decuplicato il numero di coloro che fanno scherma in carrozzina. Quando hai questi grandi campioni è più facile che lo sport acquisti visibilità, abbia maggiori possibilità di essere promosso e quindi diffuso».
Quanto le Paralimpiadi e gli sport paralimpici in genere hanno contribuito a modificare la percezione della disabilità su scala globale? Si assiste alle Paralimpiadi e dopo un po’ non si vede più una persona disabile, ma un atleta.
«Sono assolutamente d’accordo. Tutto lo sport paralimpico ha contribuito a modificare la percezione che si ha sulle persone con disabilità in generale, non soltanto su coloro che fanno sport, perché aiuta a guardare principalmente alle abilità. A Londra 2012, il presidente del comitato paralimpico internazionale, Phil Craven, il giorno prima dell’inizio delle gare disse: “In questi giorni non usate la parola ‘disabilità’ perché vedrete soltanto delle grandi abilità”. Ecco, il movimento paralimpico ha mostrato le abilità, le capacità delle persone, affinché ognuno, in qualunque condizione sia, possa e debba diventare una risorsa per la comunità. Devo dire che lo sport, insieme all’arte, sono i due settori che mettono questa possibilità più in luce».
Però lei qualche anno fa affermava che bisogna far capire alle persone che lo sport paralimpico è meraviglioso proprio perché praticato da persone con disabilità.
«Va bene guardare all’atleta, con o senza disabilità, però credo che quando parliamo di sport paralimpico non si possa prescindere dalla condizione. È vero che se assisti a una prova sportiva dopo un po’ non badi più alla condizione dell’atleta, ma non è possibile non vedere più la persona. Tutto lo sport fa luce sulle capacità. Lo sport paralimpico, secondo me, ancora di più, perché ci dice che in qualunque condizione è possibile affrontare certe sfide, abbattere certe barriere e abbattendo le barriere per sé, poi si abbattono per tutti. Quindi, non si deve arrivare a prescindere dalla condizione: l’importante è non farne l’angolazione da cui si guarda quella persona».
Più che mai sentiamo parlare di sport inclusivo. Ed è importantissimo. La parola inclusione, però, presuppone un noi e un loro, una maggioranza di persone che includono e una minoranza che è inclusa. Lo sport paralimpico in che misura può indicarci una via anche oltre l’inclusione?
«Credo che lo sport paralimpico ci possa aiutare a superare questo concetto di inclusione mostrandoci che ognuno è diverso e che la società, il mondo è bello proprio perché è pieno di tutte queste diversità. E poi lo sport paralimpico, attraverso i propri regolamenti – e qui ribalto il concetto – si occupa di non generare esclusioni. Dunque più che includere fa in modo che nessuno sia escluso. Un esempio: il regolamento che riguarda gli sport di squadra, dove ogni giocatore ha un punteggio secondo le proprie condizioni o le proprie capacità, dà la possibilità anche a coloro che vivono una situazione più invalidante o hanno delle capacità minori rispetto ad altri, di essere parte della squadra, competere insieme agli altri. Questa e altre regole, altri piccoli accorgimenti, se fossero trasportati dallo sport paralimpico alla società tutta, mostrerebbero un mondo, non solo più inclusivo, ma soprattutto meno esclusivo e davvero per tutti».
Lei ha curato insieme ad Antonio Giuseppe Malafarina e Lorenzo Sani il volume “Comunicare la disabilità. Prima la persona”, scaricabile online. Uno strumento indispensabile per iniziare o ripartire dalle parole civili, che aiutano a definire un mondo dove tutti abbiamo gli stessi diritti. Una nota in apertura di questo strumento: «Il tema della comunicazione appropriata e rispettosa dei diritti e della dignità delle persone con disabilità è sempre più al centro dell’attenzione di istituzioni pubbliche e aziende private». Dove possiamo ravvisare in special modo questa centralità?
«Nell’operato delle grandi aziende, nell’attenzione che hanno nei confronti della diversity inclusion. Un motivo che ha spinto l’Ordine dei Giornalisti a realizzare questa guida è certe attività spesso non sono sostenute da una comunicazione adeguata, corretta. E quindi sembra che non vi siano. Mentre credo che il mondo del lavoro sia molto attento. La guida è dedicata ai colleghi, a chi fa comunicazione, ma vuole essere per tutti, perché oggi con i social chiunque ha un pubblico. E si rivolge anche a coloro che nel mondo del lavoro stanno cercando di creare un ambiente non discriminatorio».
Le parole definiscono, ma spesso determinano. Ce lo fa un esempio di un modo di vedere che è cambiato dopo che abbiamo iniziato a dirlo?
«Quando siamo passati da “handicappato” a “persona con disabilità”. Questo ha cambiato il focus: prima la persona e poi la condizione. Il people-first language non vale soltanto per le persone con disabilità, ma per tutti coloro che sono a rischio discriminazione. È stato fondamentale perché la discriminazione si abbassasse».
Martedì 27 agosto, il giorno prima dell’inizio delle Paralimpiadi di Parigi 2024, l’inserto “Buone Notizie” del “Corriere della Sera” sarà in edicola con uno speciale sull’evento. Arrigoni, cosa ci anticipa?
«Si tratta di uno speciale che Elisabetta Soglio, responsabile dell’inserto, ha fortemente voluto, così come lo hanno voluto il direttore del “Corriere” Luciano Fontana e tutta la redazione. Un’attenzione che il quotidiano ha però sempre avuto. In occasione delle Paralimpiadi di Tokyo uscimmo con il libro “Ribelli. Personaggi e storie della Paralimpiade”. Questa volta, appunto, con uno speciale che racconti la storia, le storie, gli sport, il movimento paralimpico in modo da arrivare preparati al 28 agosto. Un bell’impegno, anche dal punto di vista economico».
Per concludere: qual è la disciplina paralimpica che Claudio Arrigoni segue con più passione?
«Sono molto legato agli atleti. Conosco bene Ambra Sabatini, Bebe Vio, Francesca Porcellato, … quindi non è facile scegliere. Ma la disciplina che più mi appassiona è la boccia, che purtroppo al momento non ha atleti italiani. Speriamo in Los Angeles 2028. Nella boccia troviamo gli atleti con le disabilità più gravi; alcuni muovono soltanto la testa o la lingua, o comunque solo una parte del corpo. Si avvalgono di ausili e anche della presenza di volontari, che ovviamente non possono influire sulla gara. È uno sport affascinante che rappresenta al meglio il mondo paralimpico ed è una delle 23 discipline presenti alle Paralimpiadi» (fine).