Malamine e noi
Malamine Ba e Paolo Catellani
Dieci anni di volontariato presso la Caritas diocesana di Reggio Emilia – Guastalla hanno accresciuto in Paolo Catellani il desiderio di capirci di più. Lo sappiamo: la Caritas è anche stimolo, pungolo, invito a connettere, approfondire. Così questo suo desiderio oggi ha una storia, un nome, un volto. Catellani, videomaker, ha scelto di raccontarcelo attraverso il mezzo a lui più congeniale. Con il documentario-intervista “Come sabbia al vento” ci consegna il suo sguardo su una realtà che a molti non fa comodo conoscere. Dalla Caritas di Reggio Emilia scrivono che questo è un lavoro realizzato «per capire meglio le difficoltà che attraversano le persone migranti e quali speranze coltiva un giovane senegalese».
Nel primo piano di Malamine che percorre tutto il film raccontando il suo viaggio dal Senegal all’Italia ci siamo tutti noi: i nostri giudizi affrettati, le parole pronunciate senza sapere, le volte che non ci siamo chiesti quali sogni spingano le persone a rischiare un viaggio così affollato di pericoli. E poi c’è una bandana caduta da un barcone, che il mare porta sulle nostre coste e viene raccolta da un bambino. Catellani ci invita a fare come quel bambino. A essere quel bambino. A raccogliere la storia di Malamine.
Vedi il trailer di “Come sabbia al vento”
Ha voluto capire e aiutare a capire attraverso lo strumento che conosce meglio: la videocamera. Privilegio e responsabilità?
«Sì, entrambi. Parti da una passione, prendi una posizione e questa si fa politica, nel senso più alto del termine. Sono stato molto attento a non travisare e modificare ciò che Malamine stava dicendo in base a quello che io avrei voluto mi dicesse. Il documentario non accusa nessuno: prende atto del racconto di Malamine».
Questo documentario dà una voce, una storia, un passato e un presente a una persona precisa, che però in qualche modo le può rappresentare quasi tutte: c’è un sogno così grande che spinge a partire nonostante la consapevolezza di correre grossi rischi.
«Io ho intervistato due persone prima di arrivare a Malamine ed entrambe mi hanno riportato la stessa storia. Le differenze c’erano, ovvio, ma il percorso, le modalità, l’arrivo in Libia, la prigionia ricorrono. Sì, quello che volevo fare è dare voce a uno per dare voce a tutti. Ne sentivo l’urgenza».
Sono tanti i documentari realizzati finora che affrontano il tema di chi lascia il proprio Paese in cerca di una vita più dignitosa. Qual è la particolarità di “Come sabbia al vento” che non troviamo in altri prodotti simili?
«Credo di avere affrontato il tema in modo abbastanza coraggioso. Realizzare un documentario di un’ora con una telecamera fissa può essere considerato desueto, vecchio, poco appetibile. Ma d’altra parte io sono convinto che questo sia un buon modo per consentire di capire bene cosa succede durante il tragitto. La scelta di far sempre guardare Malamine in camera non è casuale. Voglio dare agli spettatori la sensazione che Malamine stia facendo loro una confidenza. Che poi è davvero così: il ragazzo ha aperto il proprio cuore in questo racconto. Inoltre ho inserito con montaggio parallelo una parte di fiction con un bambino che gira in bicicletta e alla fine trova una bandana. Vuole essere una metafora: dovremmo guardare a queste persone come farebbe un bambino. Senza sovrastrutture, pregiudizi».
Di Malamin Ba non colpisce solo la storia. Lo ascoltiamo parlare della Costituzione italiana con padronanza. La conosce meglio di tanti di noi. Le sue parole ci insegnano che per capire le cose bisogna conoscerle. Come dovrebbe essere quando pensiamo all’immigrazione.
«Tutti restano stupiti quando si arriva a quel punto del documentario. Malamine cita parti della Costituzione a memoria, sa a quali articoli si riferisce. Evidentemente ha avuto curiosità di capire in che Paese è arrivato. Noi invece non facciamo neanche lo sforzo: qui siamo nati e quasi pensiamo che certe conoscenze siano acquisite. Senza volerlo questo ragazzo ci invita a riscoprire la nostra storia, le nostre radici e quei diritti che diamo per scontati ma che in realtà non lo sono affatto».
«Una storia emozionante». Così al Veneto International Film Festival hanno definito “Come sabbia al vento”. Una spinta a continuare su questa strada?
«I Festival si fanno proprio per mettersi alla prova, confrontarsi e avere dei feedback da pubblico e addetti ai lavori. Ripeto: io ero convinto che questo prodotto fosse piuttosto sfidante, però evidentemente qualcuno lo ha trovato interessante e ne ha apprezzato la formula. Spero che il viaggio di questo documentario possa andare avanti e darmi ancora tanti riscontri».
Lei sta accompagnando la proiezione del film, anche nel corso di incontri, convegni, come Sabir, Festival diffuso delle culture mediterranee. Qual è la domanda che le rivolgono più spesso in queste occasioni?
«Intanto rimangono colpiti dalla sensibilità di Malamin, la sua umanità e anche a volte la freddezza con la quale racconta cose pesantissime. Ma l’aspetto del documentario che apprezzano maggiormente è questo lasciare allo spettatore la possibilità di lavorare di fantasia. “Come sabbia al vento” non mostra, ma fa in modo che ciascuno ricostruisca la realtà di cui si parla a modo suo. Per quanto riguarda me si stupiscono del fatto che io da solo abbia realizzato tutto il lavoro, non solo nella veste di regista. Questo è un documentario indipendente. Mi occupo del sito Internet, dei social, della distribuzione e, appunto, della promozione».
È capitato un momento critico durante le presentazioni, qualche forma di contestazione?
«Questa domanda apre un tema per me molto importante. Non ho ricevuto alcuna critica perché chi viene a vedere il documentario è già predisposto ad accoglierlo, si tratta di persone che la pensano come me. Mi dispiace che le persone disinteressate alla questione o che la pensano in maniera diversa non vengano a vedere “Come sabbia al vento”. Si corre il rischio di raccontarcela tra di noi. Vorrei confrontarmi con altre idee. La mia più grande aspirazione è presentarlo in un contesto ostile. Questo aprirebbe una vera discussione e io capirei anche cosa c’è nella testa di chi la vede in modo totalmente diverso. Mi piacciono le sfide, altrimenti non avrei fatto questo documentario».
La forma documentario sta attraversando una stagione positiva in tutto il mondo. Aumentano le piattaforme di distribuzione, aumentano le produzioni. Pensa che in Italia questo tipo di film stia uscendo dalla nicchia?
«So di Paesi, come quelli del Nord Europa, dove il documentario ha da sempre maggiore fortuna e arriva con più facilità al grande pubblico. Da noi è ancora visto come un prodotto di nicchia, ma, sì, il pubblico si sta allargando. Però il problema è sempre quello: la produzione che sta dietro a questi progetti. Nel mio caso, con questa produzione infinitamente piccola, è difficile farsi strada per tante ragioni pratiche. Anche tra le produzioni indipendenti girano comunque parecchi soldi. C’è sempre una pur piccola casa di produzione che stanzia fondi. “Come sabbia al vento” è privo di questo meccanismo dietro, conta solo sulle mie forze ed è difficile farlo arrivare. Ma un passo dopo l’altro ci sto riuscendo».
Quanti Malamine ha incontrato nei suoi dieci anni in Caritas?
«Solo tre o quattro. Noi a Rubiera (RE), nel Centro dove ho svolto servizio volontariato, non avevamo molto a che fare con le persone che arrivavano direttamente dall’Africa, però ogni tanto qualcuno di questi ragazzi ci veniva mandato dalla Caritas di Reggio Emilia. Mi è capitato di scambiare quattro chiacchiere con loro. Ho però avuto molto a che fare con quello che i Malamine diventano quando vivono qui da alcuni anni e mettono insieme enormi problemi».
Cosa fa oggi Malamine?
«Lui ha avuto un percorso stupendo, è una persona estremamente intelligente. Dopo aver svolto il servizio civile presso la Caritas diocesana di Reggio Emilia è andato per la sua strada. Vive a Campagnola Emilia, nella Bassa Reggiana, dove ha un appartamento in affitto e un lavoro a tempo indeterminato come operaio. Il sabato sera va a ballare. Continua a sapere le sue quattro lingue. Io gli ho detto mille volte di proporsi per altri lavori, ma lui è molto timido, ha problemi di autostima e purtroppo è solo. Non ha una famiglia che lo supporti. Però è un esempio di integrazione riuscita. È arrivato qui quando aveva 22 anni e oggi ne ha 27. Più o meno. Non sa con precisione l’età, come tanti senegalesi. Sa di essere nato “in quell’anno che faceva molto caldo e in cui sono sbocciati un sacco di fiori e maturati un sacco di frutti”. Ha calcolato che dovrebbe essere il 1997».
Cosa possiamo fare della storia di “Come sabbia al vento”?
«Cambiare il nostro atteggiamento non solo verso di loro ma verso di noi. Siamo detentori di diritti o di privilegi? I privilegi sono concessi ai sudditi dai propri regnanti. Io non voglio privilegi, voglio diritti. Che se non sono di tutti, non sono di nessuno. Penso quindi che il pubblico dopo aver visto il documentario debba portarsi a casa questo. Noi non ci rendiamo conto di cosa voglia dire non avere diritti. Vorrei solo che la gente guardasse a loro come a persone che vengono qui per avere i nostri stessi diritti, non per rubarci il lavoro. Tra l’altro abbiamo bisogno di 400 mila lavoratori ogni anno e non sappiamo dove andarli a prendere. I Malamine vengono qui e noi li rimandiamo a casa loro? A me sembra una follia!».
Paolo Catellani, se dovesse raccontare “Come sabbia al vento” attraverso una delle frasi che Malamine pronuncia nel documentario, quale sarebbe?
«”So che ho qualcosa da dire. Non so cos’è, ma so che ho qualcosa da dire”. Una frase che sento forte anche io ed è la motivazione per cui ho realizzato questo documentario. Attraverso “Come sabbia al vento” ho trovato cosa dire».
Per informazioni, richieste, approfondimenti: https://www.paolocatellani.it/comesabbiaalvento/