Un podcast per conoscere le carceri italiane
Come ogni buon podcast originale, nato dunque proprio per “fare” il podcast, non il programma radio da fruire anche on demand, è particolarmente capace di stabilire un contatto profondo tra chi parla e chi ascolta. Inizia mettendo in guardia: «Dell’universo carcerario si sa pochissimo». Otto puntate e circa 40 testimonianze dopo, ne sappiamo davvero di più. Ruota intorno all’articolo 27 della nostra Costituzione – la pena deve servire a rieducare il detenuto – la narrazione di Chiusi dentro. Viaggio nelle carceri italiane. È un podcast Gedi Visual a cura di Massimo Razzi e Gabriele Cruciata in collaborazione con Antigone, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale. Un anno di lavoro di scavo, tanti punti di vista, che hanno permesso anzitutto agli stessi ideatori e curatori di scoprire aspetti di cui fino ad allora non erano a conoscenza.
Massimo Razzi, giornalista oggi freelence, un passato a Repubblica.it e da direttore di Kataweb, aveva un’idea vaga – per sua stessa ammissione – di quali attività si potessero svolgere negli istituti di pena: «Ho capito che si possono fare tante cose positive, ma non sempre chi dovrebbe ci riesce, vuoi per mancanza di risorse, vuoi perché una certa politica non chiede quello e asseconda ancora il vecchio motto del “butta la chiave”. E se in un istituto penitenziario ti trattano male, puoi uscirne ancora più incattivito. Oggi dico che addirittura dalle scuole bisognerebbe iniziare a raccontare cos’è il carcere e cosa dovrebbe essere. Alcuni già lo fanno: diversi ex detenuti vanno negli istituti scolastici a parlare con i ragazzi».
Un anno di lavoro di scavo, tanti punti di vista,
che hanno permesso a ideatori e curatori del podcast
di scoprire aspetti fino ad allora sconosciuti
Nelle otto puntate di Chiusi dentro, si parte parlando della pena in generale, a cosa serve, come il carcere è strutturato oggi e come questo ancora non riesca in molti casi a essere funzionale alla riabilitazione della pena. Con una puntata dedicata alle rivolte del marzo 2020, tra le peggiori della storia del nostro sistema penitenziario. Ampio spazio alle persone che ce l’hanno fatta a reintegrarsi nella società, grazie alle attività trattamentali, dal lavoro allo studio, a proposte culturali. Storie di rinascita, come quella di Carmelo Musumeci, che dietro le sbarre ha conseguito tre lauree, o Federico Mollo, oggi giardiniere, o ancora Aniello Arena, attore, tra gli altri, per Matteo Garrone.
I dati ci dicono che il tasso di recidiva viene letteralmente abbattuto quando la persona durante i suoi anni di detenzione ha avuto la possibilità di studiare, lavorare – fuori o dentro la struttura –, ha visto nascere e coltivare interessi. Esempi virtuosi di strutture carcerarie ci sono, e qui vengono raccontati. Da Cosima Buccoliero, ad esempio, ex direttrice del carcere di Bollate, a Milano, che nella seconda puntata afferma che far uscire la persona l’ultimo giorno della pena è un fallimento.
Ascolta un breve estratto con la testimonianza di Cosima Buccoliero, ex direttore del carcere di Bollate:
Di Bollate possiamo parlarne come esempio virtuoso anche grazie alla risposta del territorio, di una comunità che ha cercato di gettare un ponte. Che non si è “chiusa dentro”. Sì, perché il titolo del podcast non si riferisce solo alla condizione dei ristretti, ma anche a tutti quelli fuori, chiusi, appunto, non nella, ma alla realtà carceraria. Una realtà da non tenere a distanza. Anche fosse solo per questione di convenienza. Chi, quando esce, torna a delinquere, è un pericolo per tutta la società. L’invito che arriva da Chiusi dentro è dunque aprire sempre il carcere al territorio e ovviamente il territorio al carcere.
Ci piace, certo, sottolineare che nelle parole di alcuni testimoni si coglie anche gradimento per l’attenzione che la Chiesa ha da sempre nei confronti dell’universo carcerario. Conclude Razzi: «Abbiamo sentito spesso i detenuti ricordare, ogni volta in maniera positiva, della presenza della Chiesa. Meno male che questa istituzione c’è, così come le associazioni che fanno attività di volontariato in carcere. Gli operatori sociali sono pochissimi, lo Stato paga soprattutto il personale di sorveglianza, quindi il volontariato è necessario. Quello della Chiesa è uno dei più presenti».
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