Storie da un Paese sotto le bombe
Giornalista e inviata speciale del Tg1, Stefania Battistini ha realizzato numerosi reportage nelle zone di guerra, tra cui i servizi sugli scontri nel Kurdistan turco e quelli sul Nord della Siria. Attualmente è impegnata in Ucraina a raccontare la guerra in corso e l’invasione russa. Alla vigilia del primo anniversario del conflitto, nel febbraio 2023, ha pubblicato con la casa editrice Piemme: “Una guerra ingiusta. Racconti e immagini dall’Ucraina sotto le bombe”.
Ascolta l’intervista:
Stefania Battistini, questo suo libro pensato per i ragazzi – ma ovviamente adatto anche agli adulti –, attraverso la dimensione delle parole, dipinge il ritratto di un Paese e di un popolo distrutto dalla guerra. Come è nata l’idea di scriverlo? Perché ha deciso di dedicarlo proprio ai ragazzi?
«È nato in realtà da alcune fotografie. Io ho utilizzato Instagram un po’ come un diario, un blocco appunti per me e ho cristallizzato, almeno nei primi sei mesi di guerra, i volti delle persone che abbiamo incontrato e le situazioni terribili che abbiamo vissuto, dalle fosse comuni, al grande esodo di massa dopo la prima aggressione russa il 24 febbraio. Mi ha scritto l’editor di Piemme, chiedendomi: “Ma cosa ne pensi di raccontare attraverso 40 ritratti dell’Ucraina questo assedio alla popolazione civile?”. Mi è sembrata un’idea fresca, perché pensata per i ragazzi: mettere insieme i volti e le fotografie a un reticolo storico importante, che andava passato attraverso un racconto corale dei civili. Mi è sembrato una sfida farlo per i ragazzi, perché giace il nostro futuro nelle loro teste; per cui mi è parso particolarmente importante raccontare loro quello che avevo visto con i miei occhi, senza la supponenza di voler dare delle ricette, ma semplicemente facendo il giornalista e raccontando quello che avevo visto».
Lei nel libro ripercorre, passo dopo passo, lo sviluppo della guerra, dando voce alle testimonianze di chi ogni giorno quella guerra la vive sulla propria pelle. Molte le storie, i volti, gli sguardi da voi incontrati. Molte le persone che vi hanno aperto le porte di casa e del cuore. Quali riflessioni ha maturato dopo aver conosciuto giorno dopo giorno questo popolo?
«Devo dire che io sono arrivata conoscendo pochissimo l’Ucraina, la sua storia; perciò passavo le notti di guerra a studiare e a scoprire questo popolo. Lo scoprivo per le strade e lo scoprivo leggendo la sua storia. Ho scoperto oltre alla resistenza che abbiamo visto – se oggi, dopo un anno, siamo ancora qui a parlare di Davide contro Golia, è perché non soltanto l’Occidente, l’Europa, gli Stati Uniti li hanno aiutati a resistere a quest’aggressione, ma anche perché proprio nel loro Dna c’è questa forza, c’è questa resistenza, questa dignità – anche un desiderio di libertà e di affermazione di questa libertà, che va oltre ogni calcolo di sicurezza. C’è in loro un’enorme forza e anche generosità. Lo racconto spesso nel libro: abbiamo incontrato persone che avevano perso tutto… la casa polverizzata… eppure ci portavano in un angolo, dove avevano il rifugio antiaereo e le conserve e ci offrivano un bicchierino di vodka con il lardo. Riescono ad avere un’attenzione per te e per la tua sicurezza quando loro sono sotto i missili ogni giorno».
I suoi racconti sono costellati di tanti incontri. Che parlano di umanità. Un’umanità ferita, violata dal conflitto. Eppure, un’umanità che resiste, conservando tutta la sua dignità e la speranza per il futuro. Stefania Battistini, quali sono i sentimenti, quali i pensieri e le riflessioni delle persone che ha incontrato, quando si parla di ricostruzione e di pace?
«È molto difficile in questo momento per noi, ma soprattutto per loro, vedere uno spiraglio. Però vivono dell’orgoglio di questa resistenza, nonostante sia trascorso un anno, con un inverno che continua a essere freddissimo. Si raggiungono -20°C in Donbas. Si pensi anche alla vita dei soldati nelle trincee, a cosa vuol dire stare sotto terra a -20°C… e quando si scalda la temperatura, come due settimane fa, diventa tutto fango. Noi parliamo di soldati, ma in realtà loro non erano soldati fino al 24 febbraio. Erano persone che lavoravano come informatico, come meccanico agricolo e che si sono trovate ai punti di raccolta il 25 febbraio per andare a difendere il proprio Paese. Parliamo di persone che non sono proprio soldati e che oggi vivono così… puoi resistere, ma sicuramente in condizioni fisiche sempre più debilitate. Non bisogna nascondere che i morti sono stati tanti in questa guerra e continuano a esserlo. Io alla fine ho chiamato questo libro “Una guerra ingiusta” non perché esistano guerre giuste – la guerra è sempre ingiusta – ma perché, in questo caso, si è trattato di una aggressione unilaterale senza che ci fosse nessun motivo di difesa da parte della Russia: non c’erano carri armati ucraini alle frontiere russe. Un giorno invece i carri armati russi hanno sfondato i confini di uno Stato sovrano dalla Bielorussia e dalla Russia e hanno puntato direttamente alla capitale. E in questi 365 giorni – non mi stancherò mai di dirlo – hanno avuto come target, come obiettivo indiscriminato, troppo spesso la popolazione civile. Fatto, questo, accaduto in altre guerre, ma in questa per definizione: violazione di qualsiasi legge di guerra, violazione della convenzione di Ginevra, per esempio sul trattamento dei prigionieri. Quindi, in questo momento è difficile vedere una luce. Io la luce la vedo solo in questo popolo che con dignità continua a resistere e a dire: “Rivogliamo la nostra integrità territoriale. Rivogliamo la nostra storia, la nostra identità!».
Nel racconto sulla morte del soldato russo nel villaggio di Kozarovichi è narrata la vicenda di dodici soldati russi, giovanissimi, mandati in Ucraina a combattere. Nei loro occhi si cela la paura: non vogliono imbracciare le armi contro i fratelli ucraini. Sulla base delle testimonianze che ha raccolto sul campo ci può aiutare a ricostruire anche il punto di vista del fronte russo su questa guerra?
Leggi il racconto “In morte di un soldato”
«Noi i russi non li abbiamo mai incontrati. Noi siamo entrati dall’Ucraina e siamo stati sul territorio ucraino; non abbiamo mai varcato quel confine, quella zona rossa che i russi hanno preso sotto il controllo delle truppe di Mosca. Ci sono colleghi che hanno fatto il giro inverso. Sono entrati dalla Russia, sono stati embedded dell’esercito russo. Noi i russi non li abbiamo mai incontrati. Abbiamo raccolto però queste testimonianze di cui parlavi. Gli abitanti del villaggio li credo sinceri in questo racconto. Non credo sia frutto della propaganda, perché sono villaggi talmente isolati e persone così anziane. Ci hanno narrato che in questo villaggio a nord di Kiev proprio il primo giorno di guerra sono arrivati dei ragazzini giovanissimi, appena diciottenni. Hanno raccontato alla popolazione – agli anziani che ho incontrato – che erano stati chiamati in Bielorussia per una semplice esercitazione; poi, invece, nella notte sono stati caricati sui carri armati e portati a invadere l’Ucraina. Erano terrorizzati. La popolazione del villaggio di Kozarovichi ha cercato di salvarli, dando loro degli abiti civili per travestirsi e scappare. Hanno nascosto gli abiti militari, però alcuni di loro sono stati fucilati, degli altri non si sa nulla. Io ho raccolto queste testimonianze concordanti: c’è anche una parte di questo esercito mandato a combattere all’inizio della guerra un po’ inconsapevolmente. Oggi invece sappiamo della milizia privata Wagner, al soldo del Cremlino, che ha reclutato tra i suoi soldati molti prigionieri delle carceri. È un dato. Si rivolgono ai detenuti dicendo: “Se venite a combattere in Ucraina e se tornate vivi, sarete liberi”. Per cui sul territorio, soprattutto in Donbas in questo momento, intorno a Bakhmut, ci sono questi ergastolani, carcerati liberati proprio per andare a combattere, un po’ come carne da macello. Parlano di ondate di uomini inviati contro gli ucraini senza neppure la copertura dell’artiglieria, solo come fanteria a piedi: tanti uomini da sacrificare. Purtroppo io sto notando in questi ultimi due mesi un aumento delle denunce di torture sui prigionieri e non vorrei che fosse associato proprio anche a questo tipo di reclutamento particolare».
Nel racconto “Scuole rifugio” lei descrive la vita dei bambini nel Donbas, una delle zone più calde del conflitto. Lungo i corridoi delle scuole, appese alle pareti, i cartelli con i vari tipi di armi alle quali i bimbi devono fare attenzione. In questo quadro come promuovere una cultura di pace? Come restituire ai bimbi quel pezzo di infanzia che la guerra ha strappato via dalle loro innocenti mani?
Leggi il racconto “Scuole rifugio”
«È un percorso molto lungo. Parliamo di generazioni. Ora l’Ucraina chiede di entrare in Europa. L’Europa chiede all’Ucraina di iniziare questo percorso con lei. Ursula Von del Leyen continua a ripetere: “Non siete soli. Ci siamo noi accanto. Ci sono le istituzioni europee”. È un lungo percorso, una chiamata alla corresponsabilità, anche per noi, perché ci sono diversi temi da trattare oltre a questo. C’è una lotta alla corruzione che va assolutamente combattuta, c’è la necessità di costruire un giornalismo sano con un pluralismo delle fonti, delle informazioni, che in questo momento è sospeso. E poi c’è appunto la necessità di ricostruire una cultura della pace, quando però – conosciamo troppo bene le dinamiche dei conflitti – viene seminato un odio del genere. Per cui sappiamo che di fronte abbiamo bambini che sono stati cresciuti nel terrore. Nel Donbas – io non lo sapevo – ci sono corsi per bambini dai 7 ai 17 anni che educano già alle armi. Loro lo spiegano dicendo: “Magari questi ragazzi, uomini e donne, possono scegliere un giorno di fare una vita militare, per cui diamo loro anche questa possibilità di conoscenze!”. A me è sembrato terribile che a 7 anni si possa imbracciare già un fucile. È un percorso che dobbiamo fare insieme alle istituzioni europee, proprio di costruzione di un futuro di pace che entri davvero nel modus pensandi».
Nel suo libro racconta le storie di alcuni volontari ucraini che hanno deciso di restare nelle zone martoriate dalla guerra, rischiando la vita per aiutare il proprio popolo. Tra le varie organizzazioni impegnate negli aiuti umanitari ha mai incontrato Caritas?
«Ci siamo sentiti più volte, abbiamo cercato di organizzare di incontrarci. L’ho sentita a Kharkiv, anche per la distribuzione degli aiuti umanitari. Ci hanno messo in contatto con diverse persone, con famiglie aiutate. Diciamo che per noi è stato un legame forte, perché c’è sempre un pezzo anche della nostra Italia che è così generosa, così solidale nei momenti più difficili, anche quando i territori sono molto rischiosi. Portare aiuto in questi villaggi del fronte significa veramente rischiare la vita. Attraversare quelle strade che sono comunque sotto il fuoco dell’artiglieria russa significa accettare che tu possa, nel momento in cui porti quegli aiuti umanitari, essere colpito e morire. Mai come in questa guerra sono stati colpiti come target appunto i volontari, i medici, i paramedici e i giornalisti. Ho visto con grande commozione tutto il lavoro che è stato fatto. A Natale, il giorno della vigilia, a Kharkiv ho visto anche la gioia che sono riusciti a restituire ai bambini che erano appena ritornati nella città liberata. È sempre bello vedere anche un pezzo d’Italia presente».
Stefania Battistini, per concludere, una riflessione sul mondo dell’informazione. Oggi la maggior parte delle persone ha accesso liberamente a una mole di informazioni senza precedenti. Tra le molte notizie che circolano è importante saper distinguere quelle di qualità dalle altre. Un suggerimento per gli operatori della comunicazione di Caritas e non solo: quali criteri adoperare per discernere buona informazione da cattiva informazione?
«Io dico sempre agli studenti della scuola di giornalismo che alla fine gli strumenti sono dentro di noi. Nel caso del conflitto in Ucraina la prima cosa da fare è studiare quelle quattro date che ti consentono di capire chi ha attaccato chi. Sento spesso dire: “Ma l’Ucraina ha bombardato il Donbas!”. Ma nel 2014 Putin mandò degli omini verdi, soldati russi travestiti, ad armare le richieste indipendentiste del Donbas, interferendo di fatto nella vita di uno Stato sovrano. Certo che quella è stata la reazione ucraina di fronte a un’interferenza; per questo la prima cosa è davvero un minimo di studio della realtà storica. È quello che facciamo anche noi quando ci avviciniamo a dei luoghi. Poi bisogna fare lo sforzo di mettere insieme le varie notizie che arrivano da fonti diverse. Noi guardiamo i canali Telegram filorussi e quelli ucraini e poi cerchiamo di scremare attraverso le nostre fonti istituzionali e quelle un po’ meno istituzionali sul territorio. Cercare di trovare una verità: questo è lo sforzo che fa il giornalista per offrire a chi lo ascolta un’informazione corretta. È chiaro poi che, se si decide – e molte persone decidono –, di basarsi solo sui social, non c’è un filtro di studio e di comparazione delle fonti che il giornalista per lavoro fa. Credo che questo sia il male dei nostri anni. Sta anche a noi giornalisti ricostruire una credibilità tale per cui quelle persone si rivolgano a te come persona credibile, conoscendo l’onestà intellettuale. Io spero che gli anni che abbiamo vissuto di informazione o di comunicazione selvaggia ci riportino al rispetto delle professionalità e al rispetto del telespettatore e dell’ascoltatore da parte di chi svolge questa professione».